Archivio mensile

Agosto 2020

Ci sono film che non ho mai visto, nonostante abbiano avuto successo di botteghino e critica (per esempio “Nove settimane e mezzo”) e film che rivedo più volte e sempre con piacere.

“French Kiss” è uno di questi. Sarà che mi ritrovo un po’ nei personaggi che interpreta Meg Ryan, anche se io parlo meno, sarà che una volta ho avuto anche io paura in aereo, molta paura e la scena del decollo un po’ mi diverte e un po’ mi ricorda un volo da Vienna a Praga, in cui attraversammo una turbolenza niente male.

Torno al film. Il cast tra americani e francesi è perfetto. Kevin Kline con la sua faccia da schiaffi e Jean Reno, francese tenebroso sono le figure maschili di spicco. Timothy Hutton molto bravo a recitare la parte dell’insipido fidanzato americano. Invece, la competizione al femminile si gioca più sui personaggi, che sulle attrici. Almeno secondo me. La trama è quella di una commedia romantica e anche umoristica: lei, lui, l’altra ma anche l’altro. E poi c’è anche l’ingrediente poliziesco, anche se molto soft. Di quelli per cui, si prova simpatia anche per il ladro, oltre che per il poliziotto, e anche fra di loro c’è benevolenza.

C’è l’America con gli USA e l’attesa della cittadinanza per il Canada; c’è la Francia di Parigi, delle campagne dell’Auvergne con i vigneti, i formaggi e il panorama che si può guardare dal treno, c’è il mare e il glamour di Cannes con i suoi alberghi di lusso.

Il regista è Lawrence Kasdan, molto conosciuto anche come sceneggiatore, per esempio di un paio di episodi di “Guerre stellari”, e di decine di altri film. La colonna sonora è colorata: ci sono brani italiani, brani francesi e americani. Ed è una colonna sonora che si impara facilmente. E poi c’è una collana preziosa che, per quasi tutto il film, non è mai dove dovrebbe essere, tranne che praticamente alla fine. E con questo mi fermo qui, sennò vi dico troppo. Buona visione a tutti

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Vasi

di Le righe di Ornella

Vasi e portafiori mi piacciono molto. Mi piacciono qualsiasi forma abbiano, panciuta o segaligna. Mi piacciono solitari o in gruppo e in quasi tutti i materiali. Con o senza coperchio.

Sì, anticamente i vasi potevano avere il coperchio; questo dettaglio escludeva che fossero vasi per fiori o piante. Le tipologie vascolari risalgono a Greci, Romani ed Etruschi e ancora oggi si identificano con i nomi dati all’epoca.

Vaso anfora. Si tratta di un vaso pensato per conservare olio o vino, era di forma allungata e con anse; durante le feste in onore della dea Athena, veniva donato ripieno di olio agli atleti vincitori dei Giochi Panatenaici.

Vaso alabastron. E’ di piccola dimensione, decorato su tutta la superficie, spesso in vetro e serviva per conservare profumi e oli.

Vaso a cratere. Serviva a mescolare vino e acqua. Corpo largo e anse piccole, si è poi sviluppato in altre varianti, pur mantenendo la caratteristica larghezza.

Ho citato qualche tipologia, ma l’elenco è lungo. In epoca medievale nasce l’albarello. Vaso da farmacia, di forma cilindrica ma più stretto al centro, era in maiolica invetriata e dipinta a mano; per quanto fosse molto diffuso sia in Italia che nel resto d’Europa, la sua origine è senz’altro orientale, presumibilmente persiana. Oltre a questi vasi di uso professionale, c’era il cosiddetto vaso risonante. Si trattava di un vaso incassato nel pavimento di edifici medievali, probabilmente per migliorare l’acustica. Pare che questo tipo di vaso fosse già in uso nei teatri greci e romani.

Tornando al vaso come complemento di arredo, tocca citare la Manifacture nationale de Sevrès, in Francia. In realtà fu fondata a Vincennes a metà del 1700 e dopo alcuni anni trasferita a Sevrès. La produzione iniziale era di porcellana tenera, poi si passò a quella dura. Per diversi anni rappresentò l’eccellenza nel settore, ma durante la Rivoluzione Francese conobbe una profonda crisi dalla quale, però, riuscì a tirarsi fuori. La sua produzione si distinse per raffinatezza ed eleganza; chi ha dimestichezza con l’antiquariato, sa di cosa parlo. A tutti gli altri raccomando di cercare, anche su internet, notizie e immagini. Ne vale la pena. Così come vale la pena affacciarsi alle manifatture di Meissen, Limoges, Wedgwood e Vecchia Parigi.

Il 1800 fu il secolo del recupero degli stili dei secoli precedenti: in sé non creò alcuna novità (se non verso la fine quando iniziò a farsi spazio lo stile Liberty). Le tipologie di vasi quindi, ripresero forme già esistenti aggiungendo qualche novità, tipo il vaso in opalina con mano alla base, prodotto sia a Murano che a Napoli e realizzato in coppia, mano destra e mano sinistra o il vaso a calla, prodotto sempre a Murano. Se, invece, ci spostiamo sui vasi in vetro in nomi altisonanti del Liberty furono Gallé, Lalique, Daum e Tiffany. Possedere questi vasi è una vera fortuna e il mio obiettivo è averne almeno uno. Nel frattempo mi accontenterò di guardarli sui libri, oppure nei musei. Ciao

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Alaska e Indiano erano due levrieri inglesi, due greyhounds. Hanno fatto parte della mia vita un po’ di anni fa, e siccome la nostra convivenza si è interrotta di colpo e per scelta, l’ho pagata cara. Del resto non sono mai stata una impunita, e quindi so che per ogni errore mi arriverà un conto da pagare.

Dopo questa presentazione, sapete già che non sarà un articolo allegro o ironico, come spero lo siano stati gli altri.

1990. Alaska arrivò alla stazione di Monopoli, dal Cinodromo di Roma. Era per me. Spaventata dal viaggio e sola; non c’erano i suoi compagni di corsa, nemmeno i lavoranti del cinodromo. C’era una cassa in legno e lei era in questa cassa. C’era lo stridore dei freni del treno, il fischietto del capotreno, la cadenza ritmica del treno in viaggio, e neanche un goccio d’acqua. Io non sapevo ancora niente perché era una sorpresa, un regalo. Dopo un po’ mi venne portata e scoprì un mondo di cui sapevo pochissimo.

Era uno dei cani corridori che a 5 anni finiva la sua carriera, veniva ceduto gratuitamente a chi volesse prendere un cane già grande e senza impregnazione (imprinting, nel settore). Intanto lei non era più molto spaventata, ma disorientata sì; a parte i volti nuovi, la casa, c’erano le auto, i rumori del traffico, il passeggio estivo cose che lei non conosceva, come anche il guinzaglio al quale, però, si abituò già dopo un giorno.

Il suo libretto di lavoro dice che era una pluricampionessa: il coniglio bianco meccanico con lei non aveva scampo. Lontano dalle corse era timida e riservata, molto femminile nei lineamenti e con un passo felpato più da grosso felino che da cane. A proposito, il suo nome inglese era Charming Chimes.

Indiano arrivò dopo un mese esatto. Per ragioni di lavoro, Alaska rimaneva da sola per molte ore al giorno, per cui pensammo di prendere un altro cane, ovviamente della stessa razza e dallo stesso posto. Tutt’altra personalità. Indisciplinato, baldanzoso, un po’ disobbediente, sempre affamato ma anche molto simpatico. Molto.

Sul suo libretto di lavoro erano riportate diverse vittorie ma anche squalifiche poiché, spesso invece di rincorrere la lepre meccanica percorreva il circuito in senso opposto, per prenderla frontalmente. Ma il regolamento di gara non prevedeva questa opzione e, ridendo, ancora immagino le facce degli scommettitori. Insieme erano una bella coppia di opposti. Sembrava che Alaska fosse la sorella maggiore, saggia e paziente. Indiano, puro divertimento e poche regole.

Una sera, mentre trotterellava allegro e spensierato, fu investito da un ragazzo che proseguì la sua corsa senza neanche fermarsi. Dallo spavento scappò via e lo cercammo per giorni. Quando fu ritrovato, non aveva neanche un graffio: la sua muscolatura forte di corridore lo aveva protetto completamente. Vivendo in un cinodromo, praticamente protetti dal mondo, non avevano sviluppato molto il senso del pericolo.

Per diversi anni furono pezzi di famiglia: molto della nostra quotidianità ruotava intorno a loro, tranne il momento della tavola. Non ho mai apprezzato l’abitudine di tenere il cane accanto quando si mangia, sia perché la tentazione di passargli del cibo potrebbe vincere sulla opportunità di farlo, sia perché ci sono circostanze in cui , è meglio che i nostri cani o gatti, stiano sulle loro brande (tipo quando si hanno ospiti, magari allergici al pelo di animale). Per tenerli in allenamento e per tenere fede alla loro natura, quasi ogni giorno li portavamo a correre fuori città. Come tutti i levrieri, sono anche cani da caccia ma di questo aspetto non ci siamo mai occupati.

Ad un certo punto della mia vita, non potei più occuparmene e così pur rimanendo in famiglia, cambiarono città, anzi regione: la Liguria. Avevo loro notizie ma non li vedevo più, se non un paio di volte l’anno. Ovviamente un tempo insignificante se paragonato a quello in cui avevamo vissuto insieme. Loro molto offesi, si erano dimenticati di me e mi guardavano come se non mi avessero mai conosciuto e come se non fossi stata niente. Era il loro modo di punirmi ma all’inizio non detti peso a questa reazione. Poi, di colpo compresi che l’avevo fatta proprio grossa e data la distanza fisica, sarebbe stato praticamente impossibile riparare al danno. Passò altro tempo e passarono anche loro.

A pochi giorni di distanza, Alaska fu investita e Indiano scappò via, spaventato dai petardi natalizi, sempre in Liguria. Ultimo atto di un legame già interrotto. Dopo di loro non ho più avuto cani, ma se ricapitasse vorrei ancora dei levrieri.

Ah, stavo dimenticando di dirvi che il vero nome di Indiano era Blanco Special.

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Otranto

di Le righe di Ornella

Non so se sia comune, ma a me è accaduto spesso di scoprire luoghi belli e ricchi da adulta, e solo perché molto vicini a dove vivo, per cui c’è sempre quell’idea che tanto si fa presto ad andare a visitarli. E non si va mai. Per esempio non ho ancora visitato Castel del Monte: imperdonabile!

A Otranto invece, ci sono andata spesso, ma sempre per qualche ora, e sempre in estate. Qualche anno fa, per esempio abbiamo trascorso una bella giornata di fine agosto a Porto Badisco. Si tratta di una località balneare che appartiene a Otranto, di cui già Virgilio parla nell’Eneide, a proposito dell’approdo di Enea. Tra l’altro, Porto Badisco ospita la “Grotta dei Cervi” dove sono conservati disegni di epoca neolitica realizzati con guano di pipistrello. Già.

A luglio 2018, ho avuto la possibilità di fare qualche giorno di vacanza con il mio romano. Negli anni è diventata molto popolare, ha tanto turismo anche se prevalentemente estivo, e offre possibilità sia per chi voglia visitare, sia per chi voglia godersi il mare di cristallo che comunque, in Puglia, è praticamente ovunque. A proposito di mare, vi suggerisco la Baia dei Turchi, che prende il nome dall’approdo dei guerrieri turchi, durante la battaglia di Otranto. E’ un posto bellissimo, anche se purtroppo affollato. In ogni caso, sarebbe un peccato non andarci.

Se invece volete godervi la città, sappiate che passerete dalla luce abbagliante del giorno (grazie anche alle case bianche tipiche del Sud), ai caldi colori del tramonto. In entrambi i casi, sempre il mare a completare la fotografia del luogo.

Il centro storico di Otranto è grande e attivo, e come per tutti i centri storici è il cuore della città. Non potrete fare a meno di comprare qualche tipicità. Noi comprammo qualche gioiello in vetro, dipinto a mano.

La Cattedrale. E’ stata costruita nel 1088 ed è famosa per il suo pavimento a mosaico ma anche per essere custode dei resti di 800 martiri otrantini che furono giustiziati dai turchi, nel 1480.

Il Castello Aragonese. Insieme alla cinta muraria costituisce l’insieme difensivo della città. Dalla sua costruzione, ha subìto numerosi assedi ma altrettante ricostruzioni e potenziamenti. Tra l’altro è protagonista del primo romanzo gotico nella storia della letteratura, scritto da Horace Walpole (1764).

Ho parlato di Porto Badisco e Baia dei Turchi ma anche i Laghi Alimini sono molto interessanti poiché, uno è di acqua salata e l’altro di acqua dolce. La flora intorno ai laghi è rara e preziosa e in generale l’habitat consente la presenza di numerose specie animali.

Sul cibo sono assolutamente di parte, per cui non dirò nulla, ma provatelo senza indugi e di nascosto dalla bilancia. Buon viaggio

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Da quando ho visto la performance di Enrico Brignano sulla banca, ho scoperto che di un luogo a me antipatico, si può anche ridere.

La banca è così come l’ha descritta lui; forse, a seguito di questo pezzo di 2020, sarà anche peggiorata. Io ci metto piede poco. Se posso, pochissimo. In ogni caso, siccome si vive anche di maniere, e a noi piacciono le buone, andiamo a scoprire cosa dice il galateo della banca.

A parte l’ovvietà di rispettare la fila, che è doveroso ovunque, ricordiamoci che in banca, come più o meno in chiesa, si parla a bassa voce. Se il nostro conto corrente piange non interesserà a nessuno; se, invece ride avremo un motivo in più per non fare gli spacconi. Se la filiale dispone di divanetti, sicuramente ci saranno giornali per alleggerire la noia dell’attesa; ovviamente, chiameranno il nostro turno proprio mentre leggiamo l’articolo più che più ci interessa. Pazienza! Lo finiremo la prossima volta, di certo non siamo autorizzati a portar via il giornale.

Rispettando la fila, rispetteremo anche la distanza: chi ci precede ha diritto ala riservatezza, esattamente quanto noi. Questo sia allo sportello che al bancomat. E in ultimo (perché finalmente tocca a noi) dopo aver finito le operazioni, eviteremo di intrattenerci con l’impiegato, magari chiacchierando di cose che niente c’entrano con la banca, e sapendo che dietro c’è altra gente ad aspettare.

Bene, come avete letto, le regole sono poche ma ferree. Ferree. E buona fortuna

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Paprika

di Le righe di Ornella

Lo lessi a 15 forse 16 anni sotto l’espressione di disappunto di mio padre, che, però non mi impedì di finirlo. In effetti era un po’ forte, ma non impossibile.

Ricordo che lo lessi in estate, in campeggio, ma dopo tanti anni non riesco a ricordare chi me lo prestò. Di certo non era mio.

Paprika è del 1935, ed è probabilmente il lavoro più simbolico di Eric von Stroheim, scrittore, regista e attore cinematografico austriaco, naturalizzato statunitense; ha cadenze che fanno pensare più a un film che a un romanzo e anche il tentativo di volerlo collocare in una corrente letteraria precisa, risulta complicato poiché nasce come un romanzo naturalistico ma poi finisce per ricordare i romanzi dei primi dell’800 che comparivano, a puntate, sui giornali. Che non è un demerito: grandi scrittori hanno scelto questa strada, anche se non per tutti i romanzi.

Dunque Paprika è il nome della protagonista, una gitana bionda e bella. A proposito, avevo dimenticato di precisare che la storia si svolge in un villaggio di gitani: Jancsi innamorato di lei ma anche fidanzato con Ilonka, sorella del principe Estervary, Zoltan personaggio sinistro e la trama che è il mezzo con il quale questo Autore austriaco spiega lo stretto legame fra amore e morte e anche la sua idea di eros un po’ prepotente ma anche delicato, scandaloso ma anche pieno di dolore, e infinitamente tenero. Poi tutt’intorno i ritmi, i colori e le tradizioni di questa gente.

Di più non posso dirvi, anche perché la conclusione del romanzo si scopre praticamente subito e questo potrebbe far perdere interesse al lettore, ma la penna di Eric von Stroheim è capace di tenervi incollati al romanzo fino alla fine, credetemi.

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Sapevo che ci sarei ricascata. Rieccomi a scrivere di Cary Grant e Ingrid Bergman, in uno dei film più passionali e intriganti che abbia mai visto. Non meno importante, Claude Rains, attore britannico presente anche in Casablanca e altre pellicole che hanno marcato il cinema americano.

Notorious è del 1946, il regista manco a dirlo Alfred Hitchcock, ed è insieme sentimentale e thriller. Non è un caso isolato di film con più filoni ma è forse l’unico o uno dei pochi a essere stato inserito, dall’American Film Institute, sia nella lista dei migliori 100 film thriller di tutti i tempi che nella lista dei 100 migliori film sentimentali di tutti i tempi. E se lo merita.

La Seconda Guerra Mondiale, in Nazismo e le sue spie, il Brasile che ai nazisti piaceva tanto, l’uranio, due uomini innamorati della stessa donna, la mamma di uno dei due in perfetto stile “suocera ricca” sospettosa e ingerente (ruolo interpretato da Leopoldine Kostantin), e cos’altro? Lei bellissima, triste e spesso con il bicchiere in mano, lui con il suo fascino ermetico e senso del dovere, l’altro cattivo con classe, ma innamorato e morbido al punto da sembrare quello buono, fino a un certo punto però. Tutto in bianco e nero, come se il colore potesse alleggerire l’atmosfera volutamente cupa.

Il titolo poi, è una parola inglese che vuole dire sia conosciuto che malfamato e il riferimento è al personaggio interpretato dalla Bergman. E la colonna sonora? Di Roy Webb, gran bel nome nel mondo cinematografico.

Devo dirvi altro? No, guardatelo e non fatevi venire in mente di diventare spie. E’ pericoloso.

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Lo so bene: la frase conosciuta è al contrario. Ma è di alberghi che voglio scrivere questa volta. Gli alberghi nel tempo. Sì, perché la curiosità di conoscere posti nuovi, o la necessità di spostarsi da un luogo all’altro non appartengono solo all’uomo contemporaneo e neanche all’uomo moderno, ma sono condizioni antiche che riguardano l’umanità dalle origini.

I primi alberghi o edifici adibiti a sistemazione per una o più notti, furono Greci. Leonidaion, per citare uno dei più antichi, si trovava a Olimpia e ospitava gli atleti che partecipavano alle Olimpiadi. Anche gli Spartani si occuparono di costruire un edificio per ospitare e fu il primo su due piani, una novità per l’epoca. Il più famoso però è sicuramente il Santuario di Asclepio, dove gli ospiti si trattenevano anche per sottoporsi a cure mediche.

Intanto, è bene sapere che né i Romani, né dopo, durante il Medioevo, questi alloggi venivano chiamati alberghi. Per i primi erano taverne, per i secondi osterie.

Fu durante il XVII secolo, che queste strutture presero la definizione di albergo, acquisirono delle caratteristiche proprie, e anche un nome distintivo. Oggi, sparsi per il mondo, e ovviamente anche in Italia, ci sono diversi alberghi molto antichi,per esempio edificati dopo il 1000 e quindi ricchi di storia, che non hanno mai cambiato destinazione d’uso e sono normalmente aperti ai viaggiatori. Io li ho visti solo in foto e mi auguro che un giorno sarò anche ospite.

Intanto, chi viene in vacanza in Puglia, avrà scoperto le famose masserie, oggi spesso trasformate in alberghi di lusso. Nel Meridione sono presenti un po’ ovunque, ma credo che Puglia (soprattutto in Valle d’Itria) e Sicilia abbiano il numero maggiore di queste costruzioni fortificate.

Anticamente, la masseria era una azienda agricola in cui, oltre agli ambienti di lavoro, aperti e chiusi, c’erano gli alloggi privati sia dei proprietari terrieri, spesso nobili, sia dei contadini con le famiglie.

Se volete invece alloggiare in un albergo antico quanto il Regno di Napoli, allora potrete ripercorrere le tappe del Grand Tour. Sapete di cosa si tratta? Il Grand Tour era una esperienza di viaggio lunga, ma senza un tempo preciso di inizio e fine; era quasi sempre nelle esclusive possibilità dei nobili, e si svolgeva nell’Europa sulla terraferma. Lo scopo del viaggio era didattico e (questo l’ho scoperto da poco) la parola turismo, deriva proprio da questa esperienza.

E voi, avete mai soggiornato in un albergo antico?

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Da dove inizio? Questa è la prima domanda che mi faccio, ogni mattina. Devo intanto decidere se cedere alla basica pigrizia (sono nata di domenica a colazione) che mi porto dietro da sempre, o alla voglia di fare tante cose, che pure non mi manca.

In mezzo il senso del dovere, che dice più o meno così: “Scorda di poter stare seduta a non far niente e scorda di poter fare solo quello che ti piace, perché ti tengo d’occhio.”

Avete capito?

Così, dopo colazione e tg, è tempo di mettere a posto varie cose “dimenticate” qua e là per casa. Chiudere cassetti e armadi, spolverare, rifare i letti, caricare la lavatrice. Stendere il bucato con un occhio alla biancheria, e un altro ai gechi che popolano il giardino condominiale e mi degnano della loro presenza, salendo sul mio balcone.

Mi ricordo che, anni fa, una persona della mia famiglia, che non nominerò, si tolse la camicia rosa e la lanciò sul monitor del computer. Era un venerdì sera, e non mi preoccupai della cosa, poiché ero certa che avrebbe acceso il computer e liberato il monitor-servomuto. Andò diversamente. Sì, perché accese un altro computer. All’epoca in casa mia ce n’erano ben 5. Così, per tutto il fine settimana fui certa che la camicia (prima o poi) sarebbe stata messa in lavatrice, e invece il lunedì mattina la misi io. Questo avviene un po’ per tutti gli oggetti che si prendono, si usano e si lasciano lì dove sono serviti. Moltiplicate per il numero medio di una famiglia e ditemi voi. Una babilonia.

Anni fa mi consolavo guardando le riviste di arredamento, dove magicamente monolocali lillipuziani potevano contenere un sacco di roba ben organizzata e ordinata. Io poi, riconosco di avere il senso dell’organizzazione e della pianificazione, eppure il risultato non è mai soddisfacente e non è mai duraturo. Alla fine, quelle riviste, ho smesso di comprarle.

Anche ora, mentre scrivo, ci sono cose intorno a me fuori posto, e anche se le fisso minacciosa, non si spostano. Sanno che alla fine cederò e le sposterò io. Poi, anche per il mio lavoro di antiquaria, ho la tendenza a conservare e quindi il rischio di cadere in quella terra di mezzo che è “manca poco al caos”, è prossimo. Quindi, ordine e disordine, cosa sono? Mi sono documentata: l’ordine è la nostra idea personale di sistemazione degli oggetti nello spazio a disposizione. Non è detto che debba essere uguale per tutti e sempre uguale a se stesso; il disordine è l’invasione degli spazi altrui.

E con questo tentativo di spiegare la differenza, vi saluto anche perché ho da mettere a posto un po’ di cose. Poi, un giorno metterò a posto un po’ di persone. Senza fretta

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