Archivio mensile

Ottobre 2020

Un bel letto, un bel libro e, se possibile, un bel panorama. A chi non piacerebbero queste 3 cose, magari tutte insieme?

Nella Preistoria avranno avuto bei panorami, ma né letti né libri. La carta stampata arriverà molto dopo, e i letti erano prevalentemente giacigli di paglia e foglie. Questa usanza si mantenne fino a tutto il Medioevo, ma solo per le classi povere della società. I ricchi, già fra Egizi e Greci avevano scoperto l’uso della lana per imbottire sacchi di tessuto, evidentemente più morbidi della paglia. I Romani avevano il “triclinio”; questo termine indicava sia la sala da pranzo, che un complesso di 3 letti uniti che servivano anche, ma non solo, per dormire.

Dunque, intorno al 1400 si cominciò a costruire letti più simili all’idea moderna di questo mobile: erano detti “a cassone” perché avevano come dei ripostigli su 3 lati e la testata come la conosciamo noi. Poi arrivò il letto “a baldacchino”. Aveva 4 montanti, tipo colonne, ma anche a forma di sculture femminili da cui partivano veli che proteggevano dal freddo e garantivano intimità agli occupanti. La Francia fu di ispirazione per l’Europa, per quanto riguarda la struttura, l’estetica e la funzione del letto. Era frequente che il Re ricevesse in udienza nella sua camera da letto, e questo spiega la ricercatezza (soprattutto nel 1700) dei modelli, dei legni pregiati e delle stoffe ricamate, usate per creare privatezza.

Durante il Neoclassicismo, soprattutto con le Campagne d’Egitto promosse da Bonaparte, il mondo antico affascinò talmente tanto l’Occidente, che fu naturale ispirarsi a quel periodo per inventare un nuovo stile nell’arredamento, specie delle case più ricche. Nacque lo stile “Impero” e con esso il “lit en bateau”, cioè letto a barca, di chiara ispirazione classica.

Nel XIX secolo, insieme ai letti in legno si iniziò a costruire anche letti in ottone, ma anche in ferro. Con l’Art Nouveau invece comparvero le prime reti metalliche, considerate più igieniche del legno.

Il letto nella nicchia, invece, rimase una prerogativa dell’Europa Settentrionale e non ebbe seguito altrove, sicuramente non in Italia dove si preferirono letti spaziosi a cui spesso accostare capienti cassapanche.

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Gli unici tavoli da gioco che abbia mai visto di persona, si trovavano in un Casinò di Montecarlo in cui entrai, una volta di tanti anni fa, per curiosità e per provare le slot machines. Ricordo che a un tavolo di “Black Jack” c’era una giovane signora napoletana, molto carina e acqua e sapone, che scommetteva un milione (di lire, ovviamente) a ogni puntata, perdendo con il sorriso e senza scomporsi minimamente. Che è l’unico atteggiamento possibile, quando non si sappia come impiegare il denaro che si possiede.

Io, invece, alle slot vinsi ma senza sbancare il Casinò. Fu lo svago di una serata di agosto, senza intenzione di replicare. Per converso, ai giochi da tavolo mi sono appassionata da piccola. Sarà che li associavo all’autunno e all’inverno, al piacere di stare a casa con amici quando fuori era freddo, alla divertente competizione che si scatenava, insomma per anni mi sono divertita a comprare case e alberghi, e a volte finire in prigione. Non spalancate gli occhi: sto parlando del “Monopoli”. Nelle ultime edizioni si chiama “Monopoly”, ma per me non vale.

Normalmente i bambini iniziano con il “Gioco dell’oca”, io iniziai giocando a “Dama”. Mi piaceva la parola dama e anche il gioco non era male, per quanto devo dire che nell’aspetto non lo trovassi (neanche adesso) molto attraente. Poi arrivò il “Monopoli”, durante le feste natalizie del 1974. Stava anche per arrivare mio fratello, l’ultimo di casa. Chiuse l’anno, nascendo appunto il 31 dicembre. Dunque, dicevo che scoprì il “Monopoli” a casa delle cugine e mi piacque subito. Da allora e fino a qualche anno fa, ci ho giocato tutte le volte in cui ho potuto, e la cosa che mi piaceva più di tutte era scoprire le carte “probabilità e imprevisti”.

Poi è arrivato Risiko!

Il punto esclamativo faceva parte del gioco. Gioco di guerra individuale, con obiettivo segreto da raggiungere. Molto bello, strategia e azione. Eravamo un po’ diplomatici e un po’ guerrafondai. Ricordo che nell’inverno del 1987 dominò tutti i sabati e tutte le domeniche pomeriggio a casa dei miei, dove ancora vivevo. Con i miei fratelli e gli amici era un ottimo svago di fine settimana, e giocavamo dal primo pomeriggio fino a sera, quando poi ci spostavamo in pizzeria. Poi arrivarono “Scruples” e “Taboo”, giochi con le parole e “Inkognito”, intrigo di spie nella Venezia del 1700; gioco per niente facile. Mi piacciono tutti, ma il gioco delle atmosfere magiche è la “Tombola” che però merita un articolo a parte. Buon divertimento

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A Bologna, la prima volta mi sono fermata per poco più di un mese. In quel periodo, cadeva il mio compleanno e fu il primo e forse l’unico che festeggiai lontano da casa. Compivo ben 13 anni. Ero dagli zii e con le mie cugine.

Al momento, Bologna rappresentava per me il posto più lontano e più a Nord di casa mia, che avessi mai visitato. La prima cosa che mi colpì furono i portici. Tanti portici, 38 km di portici ma in alcuni blog di viaggio ho letto anche 40 km. Pensai che lì nessuno usasse gli ombrelli. E’ anche la città delle torri, ma il numero di queste, nel corso del tempo, è diminuito. Dagli Etruschi alla Seconda Guerra Mondiale è stata spesso protagonista della Storia. E’, in quanto nello Stato Pontificio, fu dichiarata capitale settentrionale dello stesso.

Arrivando in treno, la prima strada che balza agli occhi è Via Dell’Indipendenza, che unisce la Stazione Centrale a Piazza Maggiore ed è la strada in cui facilmente prosciugherete il vostro portafogli. Quindi, Piazza Maggiore che è molto grande e ospita importanti palazzi storici, per esempio Palazzo d’Accursio. All’interno di questo palazzo si trova la Biblioteca Salaborsa e attraverso la sua pavimentazione trasparente, si intravedono reperti archeologici, visitabili con o senza guida. La Basilica di San Petronio e la Basilica di Santo Stefano, detta anche delle Sette Chiese, non perdetele perché sono molto belle e fra le più grandi al mondo.

Museo Civico Archeologico, Palazzo dell’Archiginnasio (antica sede dell’Università, oggi Biblioteca Civica) con all’interno il Teatro Anatomico; la Torre Garisenda e la Torre degli Asinelli, sono le due più famose fra le tante torri erette a Bologna durante il Medioevo. Tutte avevano funzione di difesa, ma anche di affermazione del potere delle famiglie più importanti. Di circa 100 torri ne sono rimaste 22 o 24, sempre secondo i vari blog che ho consultato per i dettagli.

Cos’altro? San Luca. In realtà Santuario della Madonna di San Luca, è un sito religioso che non dovreste perdere. Io lo visitai durante la mia prima permanenza ma poi, nonostante sia tornata spesso a Bologna non ho più avuto occasione di andarci. Ci si arriva percorrendo una via porticata con gradini. Non ricordo quanto fosse lunga da percorrere, ma ricordo che trovai questo percorso molto rilassante e divertente. Bene, buona permanenza e prendete del tempo per assaggiare la cucina bolognese. Come ovunque in Italia, la cucina del luogo non tradisce mai.

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Oggi sposi, domani chissà. Purtroppo accade, anche alle coppie più solide, di avere un fidanzamento da ricordare e un matrimonio da dimenticare. Intendo, inciampare in una crisi matrimoniale senza via di uscita. Non parlerò delle motivazioni più o meno note, che determinano una rottura matrimoniale, ma del comportamento più appropriato da tenere se dovesse capitar di fare questa esperienza.

A fede tolta, spesso l’unica traccia del matrimonio finito, è il segno dell’abbronzatura che rimane all’anulare (e neanche per molto tempo). Dopo la sentenza, una formale stretta di mano e i due tornano a essere gli estranei di prima di fidanzarsi. Poi ci sono altri casi: per esempio, se ci sono figli i contatti si mantengono per la parte di genitorialità da assolvere. E sempre a noi che viviamo con stile, un’occhiata al saper vivere anche in tema di divorzio, piace darla.

Negli anni ’90, forse anche un po’ prima, in certi ambienti si era diffusa l’abitudine di festeggiare il divorzio, nel senso di celebrare l’atto liberatorio da un matrimonio mal riuscito. L’ho sempre trovato di pessimo gusto: per quanto sì, alcune volte il divorzio sia l’unica soluzione possibile, si tratta sempre del punto di arrivo di un progetto di vita a due che non è riuscito. Non c’è niente da festeggiare, c’è solo da accettare l’evidenza. Se dovesse capitarvi fra le mani un invito a un evento di questo genere, vi consiglio di astenervi dal presenziare.

Iniziamo dalla cerchia di amici. Se sono veri amici saranno dispiaciuti per entrambi, anche quando il divorzio sarà per colpa di uno dei due. Poi, anche qui rivedrei il concetto di responsabilità perché, secondo me, un pizzico di colpa ce l’ha anche chi il divorzio lo sta subendo. Ma torniamo agli amici.

Saranno presenze discrete, eviteranno la raffica di domande per conoscere termini e dettagli. Non serve chiedere, le confidenze arriveranno. E qui mi rivolgo agli ex coniugi: agli amici più stretti, raccontate la novità, mostrando le normali emozioni, dopodiché per il futuro eviterete di essere monotematici, tirando fuori l’argomento a ogni caffè. Anche gli amici più disponibili potrebbero annoiarsi o peggio, sparire.

I rapporti con i suoceri.

“Non erano buoni durante il matrimonio, figuriamoci da adesso in poi!”. Questa considerazione è frequente ma noi che viviamo con stile, non la accoglieremo. No. Se anche i rapporti non sono mai stati idilliaci, è questo il momento di mostrare tutta la classe che possediamo e manterremo un profilo di rispetto, gentilezza e cura della forma. Se la coppia ha figli, c’è un motivo in più per mantenere buoni rapporti con i suoceri: compleanni, feste comandate e qualche uscita insieme ai nonni, saranno di grande aiuto (reciproco) per accompagnarli al cambiamento che ci sarà nella loro vita. Del resto, non solo i figli, ma anche i genitori dei coniugi divorziati, dovranno fare i conti con la nuova realtà.

I regali. I gioielli di famiglia si restituiscono sempre, tutto il resto si deciderà caso per caso.

E per finire, la moglie che volesse continuare a portare il cognome del marito, dovrà essere autorizzata dallo stesso. Personalmente, non trovo necessario continuare a usarlo, ma è solo la mia opinione, non la regola.

Buon stile a tutti

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Charles Dickens l’ho conosciuto attraverso “David Copperfield”. Non il romanzo, ma lo sceneggiato prodotto da RAI, e mandato in onda fra il 1965 e il 1966. All’epoca avevo pochi mesi, per cui vidi una replica di qualche anno dopo. In effetti, quella trasposizione piacque talmente tanto al pubblico a casa, che di repliche ce ne furono diverse.

Così scoprì, ancora piccola, che c’era stato un inglese in epoca vittoriana (ripetevo questa espressione senza sapere bene cosa fosse) che aveva scritto tante belle cose, con quel lieto fine che ben si addice ai bambini e che arriva dopo tante tribolazioni. Il lieto fine mi piace anche ora, soprattutto nella realtà, non crediate…

Da adulta, ho imparato che il suo stile era la fusione del genere picaresco e del genere rosa, per arrivare al romanzo sociale.

Dunque, “La piccola Dorrit” è Amy, figlia di William, uomo benestante che però contrae debiti che non riesce a saldare, e finisce in prigione. La legge del tempo consentiva al condannato di condividere la cella con la sua famiglia. Amy ha due fratelli più grandi, e con i genitori vivono insieme nella prigione di Marshalsea. Quando Amy ha 8 anni sua madre muore, e poco dopo muoiono sia l’ostetrica che il carceriere. A questo punto, William diventa decano del carcere.

Passano gli anni e Amy con i suoi fratelli, iniziano a lavorare, avendo raggiunto l’età per farlo. Quindi, di giorno escono di prigione per poi rientrarvi in serata. Amy va a lavorare a casa Clennam, da una signora della buona società londinese che forse nasconde un segreto. Questa signora ha un figlio, Arthur, che vive in Oriente, dove cura gli affari di famiglia. E’ in possesso di un orologio che potrebbe aver a che fare con il segreto di sua madre e che lui intende scoprire. E qui mi fermo.

Dickens merita un posto nella libreria di casa, come tanti scrittori classici, quindi confido che leggerete questo romanzo, che va bene per ogni età e magari anche qualche altro, per esempio “Il circolo Pickwick”, in cui l’Autore si cimenta nel genere umoristico. Buona lettura

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Questa volta mi piacerebbe scrivere di un attore italiano, al posto di un intero film straniero. Mi è venuto in mente Carlo Verdone. Non ricordo quale sia stato il primo film che ho visto con lui come protagonista; quello che so è che, probabilmente, l’idea che sarebbe diventato un grande attore era ben chiara a tutti.

Leggendo qua e là notizie sulla sua vita, ho appreso che la carriera nel cinema inizia con la direzione di alcuni cortometraggi, poi andati perduti. Ma forse, in modo inconsapevole, già con la sua tesi di laurea in Lettere Moderne dal titolo “Letteratura e cinema muto italiano”. Un altro contributo sarà certamente arrivato da suo padre, critico cinematografico e docente universitario di storia del cinema, ma in generale dalle frequentazioni che la famiglia aveva.

Al netto della sua formazione, Verdone è un attore di grande bravura per il talento con cui interpreta i personaggi, per esempio nei film a episodi, dove i ruoli sono estremamente distanti fra loro. A cominciare dall’espressività facciale, che è un fatto non scontato e che gli consente di passare da scene esilaranti a scene malinconiche in modo naturale.

Verdone sa rappresentare molto bene l’italiano medio, che è poi lo scopo della “Commedia all’italiana”. Generalmente questa espressione è usata in modo offensivo, per indicare una tipologia di cinema di serie B, arrivata dopo il Neorealismo (corrente culturale nata durante la Seconda Guerra Mondiale e mantenutasi attiva anche negli anni a seguire, e che si è diffusa proprio attraverso il cinema). Certo, non tutto ciò che ha prodotto la Commedia all’italiana è apprezzabile, ma ha definito un’epoca e ha rivolto l’attenzione, anche con amarezza, ai vizietti di una minoranza poco stimabile di italiani. Per fortuna, una minoranza. A presto

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Questo è un argomento che tratterò sia qui, che in “Essere e avere”, dove scrivo di buone maniere.

Intanto si chiamano così perché, anticamente, i commensali avevano le loro e le tiravano fuori dalla custodia appesa alla cintura, posandole sulla tavola. Cucchiaio deriva dal latino cochlea, cioè conchiglia; la sua forma infatti, serve a contenere cibi liquidi e, fra le altre cose, era la posata più diffusa dai poveri che si nutrivano prevalentemente di minestre. Era ed è anche uno strumento di misura. Gli esemplari più antichi erano in legno, da sempre un materiale facile da trovare. Successivamente, si iniziò a fabbricare cucchiai in metalli vari (anche preziosi), serpentino (gruppo di minerali), onice e anche i manici furono ornati con pietre preziose. Fino al 1500 forma e dimensione del cucchiaio fu una sola; successivamente si aggiunsero altri modelli più adatti a tè, caffè e cioccolata.

Il coltello. Nasce come arma da caccia o da difesa, e la sua impugnatura era in materiali diversi, secondo i gusti e le disponibilità del committente. Dai Romani fino al Medioevo, il cibo si portava alla bocca con le mani; esisteva una figura professionale, chiamata “scalco”, che aveva il compito di trinciare le carni e portarle al banchetto in bocconi pronti da mangiare. Nel 1600, si avviò la produzione del coltello da tavola, di dimensione più piccola rispetto a quello da caccia e più raffinato tanto che, in piena epoca barocca, diventò un oggetto anche bello da guardare.

La forchetta. Un forchettone a due rebbi è l’arnese che più somigliasse a una forchetta, così come la conosciamo noi.

Fra le posate è la più giovane, sia perché l’uso delle mani è durato per secoli, sia perché era diffusa l’idea che usarla fosse una perversione diabolica. La sua terra di nascita fu, senza dubbio, l’Italia e in Francia vi arrivò grazie a Caterina de’ Medici. Per quanto, non sporcarsi più le mani piacesse molto, la diffusione in Europa non fu snella e questo per l’opposizione della Chiesa, che ne aveva proibito l’uso nei conventi.

A partire dal XVIII secolo, la tendenza si invertì e sempre in Italia, sotto Ferdinando IV di Borbone la forchetta cambiò forma e i rebbi diventarono 4. La necessità risiedeva nell’esigenza di mangiare più agevolmente i diversi tipi di pasta, di cui l’Italia deteneva il primato della lavorazione, produzione e qualità. Modestamente.

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Il tema è serio. E’ serio perché piacersi è difficilissimo, più difficile di piacere. Intanto, e non lo sappiamo, questo processo inizia con la nostra stessa vita. Ma da neonati non abbiamo grossi impegni o responsabilità, se non mangiare e dormire. Riconoscere l’odore della pelle di nostra madre, la voce di nostro padre, e in ogni caso questi “compiti” sono istintivi, non richiedono alcuno sforzo.

Ogni progresso nella nostra crescita sarà pura gioia, soprattutto dei nonni, che ovviamente attribuiranno ai loro rispettivi figli, tutte le capacità intellettive di questo mondo che il nipote avrà ereditato. E per ogni progresso ci saranno accettazione o rifiuto, perché crescita e affermazione di sé passano da queste due possibilità. La cosiddetta “fase di opposizione”, nel mio caso si manifestò con il cibo: a 2 anni decisi che non volevo più mangiare (ma cosa avevo in testa???) e così prendevo il primo boccone e non lo ingoiavo. Questo duello tra me e mia madre o chiunque mi imboccasse, durava fino a quando i muscoli facciali non iniziavano a dolermi: a quel punto spruzzavo in faccia al malcapitato tutta la minestrina. Ovviamente il “nemico” si arrendeva. Non ho un ricordo personale di questo periodo, ma ho diverse foto che testimoniano la mia posizione irriducibile.

Poi arriva la scuola con prove e obiettivi nuovi, ma ugualmente impegnativi. Aumenterà il numero delle persone con cui avremo a che fare, e anche il numero delle persone che giudicheremo e che ci giudicheranno. E sempre, all’inizio di tutto ci sarà il nostro giudizio su noi stessi. Estetica, intelletto, carattere e temperamento. Saremo sempre pronti a incolparci di ogni cosa andata storta, anche piccola, incapaci di provare pietà per i nostri fallimenti. Come se fallire fosse irrimediabile.

Fallire avendo la certezza di aver tentato tutto il possibile, non deve essere un limite. Passata l’autofustigazione sarà opportuno e augurabile riprovare. Per esempio, concentrandoci sui nostri punti di forza. Ci sono, è solo che li abbiamo messi da parte.

Impariamo a stare da soli.

Questa è una cosa che spaventa molto, e molti. Stare da soli significa correre il rischio che la nostra parte più intima, faccia capolino e ci dica cose indesiderate. A me piace molto stare da sola e ogni giorno ho bisogno di un tempo, anche minimo, in solitaria. Ho scritto di proposito “in solitaria”. Perché, invece, solitudine ha una accezione negativa. E sarà forse questo il motivo per cui cerchiamo sempre la compagnia di qualcuno, a prescindere.

Ma saper stare da soli, dedicandoci al nostro passatempo preferito, oltre a sciogliere le tensioni, può far emergere cose della nostra personalità ancora sconosciute. E soprattutto può aiutarci a scoprire cosa non ha funzionato, cosa ha determinato il fallimento di un progetto. Scrivere con penna e carta, preparare una ricetta di cucina, suonare uno strumento, passeggiare, fare acquisti, leggere, disegnare, cantare e ballare, oppure semplicemente stare distesi a guardare il soffitto sono tutte cose semplici che se fatte da soli, hanno un valore e un potere differenti.

Avere pazienza.

Quanto sono belli i risultati veloci! Quanto ci piace avere soddisfazione immediata dalle cose che facciamo e diciamo, specie se viene da chi ci sta intorno! Eppure, in un’epoca in cui la tecnologia ha portato nella vita di tutti noi la velocità e l’immediatezza che sta in un clic, imparare a saper aspettare ci toglie l’ansia da prestazione e da risultato. Avere pazienza modifica il nostro respiro.

Guardarsi allo specchio.

Spesso sento dire “Non mi guardo mai allo specchio”. Sembrerà impossibile, e invece io credo che davvero qualcuno rifiuti di farlo. E qui vengo al tema dell’accettazione del nostro fisico. Qualcosa ci piacerà, qualcosa no. Se potremo migliorare quello che non ci piace, bene. Io avrei voluto qualche centimetro di altezza in più. Posso rimediare? No. Amen. A volte metto i tacchi: cambia poco, ma faccio quello che posso con quello che ho. Quello che non farò mai (anche se “mai dire mai”) è mettermi nuda sulla copertina di un giornale, fingendo fierezza per dei chili in più che mi danno delle forme morbide, quando il messaggio vero è: “Accettatemi voi perché io non ce la faccio”.

In definitiva, chiedere scusa per come si è fisicamente o per le proprie idee è un boomerang, perché crea un precedente: dà agli estranei il potere di modellarci e di dirigerci. E noi non lo vogliamo.

Vi aspetto nei commenti

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A Gallipoli ho vissuto per un certo periodo. Il lavoro di mio padre prevedeva periodici trasferimenti, e Gallipoli fu la nostra residenza per 3 anni.

Ricordo bene la casa, vicino al mare. Ricordo la disposizione delle stanze, il salotto in cui ricevevo le mie amiche immaginarie (le mie sorelle erano troppo piccole per i giochi che piacevano a me) con le quali prendevo un tè. Per questo tè, ovviamente, avevo scelto un servizio di porcellana che i miei genitori avevano avuto in regalo per il matrimonio. L’ho sempre maneggiato con cura e senza rompere nulla, e se si considera che avrò avuto 3 o 4 anni, posso dirmi soddisfatta. Ricordo la cucina luminosa e le anguille che sgusciavano dalla pentola. Non le ho mai mangiate. Non ho memoria, invece, delle camere da letto.

La casa era a un piano e sullo stesso pianerottolo c’erano i proprietari dello stabile. Marito, moglie e 4 figlie universitarie. Le mie sorelle troppo piccole, queste ragazze troppo grandi, per cui non ho mai chiesto neanche a loro di prendere un tè, alle 5 del pomeriggio. Un’altra cosa che mi viene in mente di quel periodo, era il teatrino dei burattini e delle marionette, in Piazza Tellini. Almeno credo, se i ricordi sono giusti, che fosse lì. Io seduta in prima fila, con le gambe che non toccavano a terra, le scarpe occhio di bue (ve le ricordate?), concentrata a seguire storie di cavalieri coraggiosi e damigelle in pericolo.

Ma al di là dei miei ricordi c’è una Gallipoli molto carina da scoprire. Se andrete in estate, una giornata alla spiaggia della Purità vi lascerà contenti. E’ una piccola spiaggia proprio sotto i bastioni della città e al tramonto potrete spostarvi sull’isola di Sant’Andrea dove c’è il faro che segna l’orizzonte; un tempo, per la presenza di una fonte di acqua dolce, ospitava greggi di pecore. Oggi, è sede di nidificazione del gabbiano corso, ed è perciò disabitata.

Il centro storico sorge non proprio al centro del paese, fu progettato dai Greci i quali fecero in modo che le abitazioni più esterne fossero protette dai venti di mare. La Cattedrale di Sant’Agata (patrona della città) e la chiesa di San Francesco d’Assisi, entrambe barocche. In realtà, la chiesa di San Francesco era di origine medievale, poi rimaneggiata fra il 1600 e il 1700. Al suo interno ospita 10 altari barocchi e due statue in legno raffiguranti la crocifissione dei ladroni. Personalmente non ricordo di averla mai visitata, quindi dovrò rimediare presto. E come ogni posto che si rispetti, c’è un castello: il Castello Angioino Aragonese. Circondato quasi del tutto dal mare, la sua costruzione è iniziata nel 1200 ma nel tempo ha subìto le trasformazioni, secondo i conquistatori che si avvicendarono.

Poi la vita sociale, le spiagge, il cibo, la bella gente, il mare, il famoso Festival della Taranta, che celebra la pizzica, antico rito per esorcizzare il dolore che provocava il morso della tarantola. Attraverso il ballo si cercava di superare il dolore fisico. Ovviamente, oggi è una danza di puro svago ed è molto divertente.

Non mi viene in mente altro, ma se siete stati a Gallipoli di recente, scrivete pure nei commenti la vostra esperienza. Se, invece, non ci siete mai stati, non dimenticate di assaggiare lo spumone. Ciao

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