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Gennaio 2021

Sbuffate? Tutti i giorni? Quante volte al giorno? Ve lo chiedo perché a me succede ma se mi guardo intorno, ovunque mi trovi, non vedo gente farlo. Quindi lo faccio solo io?

È successo, per la prima volta anni fa, in seguito ad alcune vicende personali e familiari. Era diventata una abitudine: già di prima mattina mi capitava di sbuffare, anche se apparentemente non c’era un motivo valido per farlo. La cosa mi aveva messo in guardia perché volevo e dovevo risalire all’origine di questo effetto. E poi, sapete quanto mi piacciano le buone maniere, e sbuffare non rientra tra queste. Mi consolava il fatto che sbuffassi in casa, fuori mai. Questo non voleva certo dire che l’origine di questo atto involontario fosse nel posto che più mi piace: casa mia, appunto. Forse, semplicemente, stava a indicare che a casa mia mi sentivo libera di esprimere questa insofferenza. Ma perché lo facevo?

Ho iniziato a concentrarmi sulle mie giornate, sulle persone con cui mi relazionavo, sul tempo libero. Sul lavoro no, perché in quel periodo non ce l’avevo. Le mie giornate erano quelle di una disoccupata-casalinga forzata. Intendiamoci, come ho scritto sopra, la mia casa è il mio posto del cuore ma la ripetitività delle faccende domestiche mi annoiava. Poteva essere quello il motivo? Escludo le persone, perché erano le mie figlie, la mia famiglia di origine e gli amici di sempre. Il tempo libero nemmeno, non ho mai avuto problemi a gestirlo come piace a me.

Allora ho cercato l’argomento su pubblicazioni di psicologia e siccome sbuffare è un sintomo, a dispetto dell’antipatia del gesto, ha un valore positivo perché “costringe” a indagare sull’insofferenza che sta portando alla luce. Può essere temporanea e durare qualche giorno, giusto il tempo di risolvere una questione contingente di vita quotidiana; oppure duratura e magari aumenta e allora l’indagine deve essere rivolta verso se stessi.

E’ molto importante non trascurare questa condizione, perché infine è il nostro cervello che ci avvisa che stiamo percorrendo una strada che non è la nostra, stiamo subendo decisioni che non sono le nostre e ignorare questi segnali può rovinare la qualità della vita e magari i rapporti con gli altri, in qualsiasi contesto.

Nel mio caso, la motivazione era il senso di immobilismo che provavo, dopo aver lasciato la mia attività di antiquaria. Se devo dirla tutta, non c’erano in quel momento altri lavori che avrei fatto con la stessa passione. E sono passati molti anni prima di ricominciare a occuparmi di antiquariato, anche se in un modo un po’ differente.

Dopo aver individuato il punto di partenza, magicamente smisi. Il sintomo non serviva più. Da qualche mese però, ho ricominciato, e quindi dovrò rimettermi a lavoro per capire di cosa si tratti. E comunque, investigare mi diverte.

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Nizza

di Le righe di Ornella

Sono andata diverse volte a Nizza e già dalla prima, ebbi una impressione di familiarità. Come dire, nonostante fossi a molti chilometri dalla mia regione, era come se non mi fossi spostata molto. Poi capì che mi ricordava Bari. Lo dissi a un signore che abitava, anzi abita, al confine italiano e scoppiò a ridere. Ma io ero seria e quando ripenso alle strade larghe, alle rotonde, al lungomare, che vi devo dire, ripeto sempre quell’accostamento della prima volta.

Per le prime due o tre estati da turista, poi da antiquaria, in giro per negozi e mercati di altri antiquari. Il mercato di cose antiche è di lunedì. Avevo scritto “era”, poi ho dato un’occhiata su internet e ho visto che c’è ancora e lo fanno in Cours Saleya. Cose belle per tutte le tasche.

Nizza si affaccia sulla Costa Azzurra ed è molto vicina all’Italia. Ha origini molto antiche: fu, infatti, fondata da coloni Greci prima di Cristo e chiamata Nikaia; Nicaea, invece, dai Romani. Per la sua importanza, soprattutto commerciale, è stata nel corso dei secoli molto contesa fra Longobardi, Saraceni ma soprattutto fra Italiani e Francesi. Questa altalena è andata avanti fino al 1860, quando passò definitivamente alla Francia, e da lì in poi perse gradualmente tutte le caratteristiche di italianità: per esempio l’uso della lingua italiana che dalla metà del ‘500 era la lingua di governo, la trasformazione dei cognomi in francese e la chiusura di alcuni giornali.

Quando deciderete di visitarla, scoprirete che ha una forte vocazione turistica ed è veramente carina. Non so con cosa iniziare l’elenco, ma direi che la “Promenade des Anglais”, cioè una passeggiata che costeggia il lungomare, che ospita eventi importanti e le famose sedie blu per ammirare il mare, non dovrà sfuggirvi. Baie des Anges è il nome del lungomare. “Palais Lascaris”, antico palazzo del 1600, appartenuto a una famiglia nobile è oggi un importante museo della musica e si trova nel centro storico.

“Place Massena” (1840) è la piazza più importante di Nizza; circondata da portici che ospitano negozi, caffè e ristoranti ma anche una famosa installazione di Jaume Plensa, che si chiama “Conversazione a Nizza”, formata da 7 statue che rappresentano i continenti. Un’altra piazza importante è “Place Garibaldi” e il nome dice tutto. “Parc Phoenix” è un parco botanico molto interessante con fontane animate a ritmo di musica classica, padiglioni con molte specie di farfalle e volatili e percorsi di scienze naturali, molto interessanti per tutte le età.

Segnalo, ma non li ho ancora visitati, il “Museo Matisse” e le due Cattedrali: una di religione russa ortodossa S. Nicola e l’altra di religione cattolica dedicata a Santa Reparata.

Ovviamente c’è tanto altro da visitare, ma poi ciascuno sceglie l’itinerario in base a gusti e interessi personali. Buon viaggio!

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A giugno 2020, quando l’odore del mare e dell’estate cercava di distrarci dalla tristezza della pandemia e della quarantena, scrissi un articolo nella categoria “viaggi”, che intitolai “Di mare”.

Oggi torno a parlare di imbarcazioni e di viaggi per mare, ma dal punto di vista delle buone maniere. Già da bambina, mi erano chiare. Mio padre è stato un militare di mare, e diceva sempre quanto fossero importanti, proprio per controbilanciare gli scarsi spazi a disposizione.

Che si scelga un traghetto, una grande nave da crociera oppure una barca a vela, le regole saranno molto simili ma una su tutte prevarrà, a prescindere dalla tipologia di imbarcazione: il rispetto per gli spazi.

Il traghetto. Solitamente lo scegliamo per tratte brevi che dalla terraferma ci portano alle isole. È molto frequentato, soprattutto da giovani con zaino e voglia di vacanza senza genitori, anche per il costo del biglietto alla portata di tutti. Ebbene, anche per un percorso di poche ore, cerchiamo di tenere a mente alcune semplici regole. Sui traghetti è consentito consumare un pasto a sacco, così come è consentito utilizzare il proprio sacco a pelo per dormire; quindi, ricordiamo che disturbare gli altri viaggiatori parlando a voce alta, ascoltando musica a volume alto, e in generale imponendo la nostra presenza, saranno validi motivi per farci volare in acqua. Scherzo! Però facciamo attenzione.

La nave da crociera. È come una città in piccolo (forse l’ho già scritto nell’altro articolo) ma per gli ambienti che frequenteremo è bene sapere che: la cabina, piccola o grande, è una vera e propria camera d’albergo. Avremo cura di non fumare e di tenerla in ordine, anche se il personale di bordo se ne prenderà cura tutti giorni. E a questo proposito, ricordiamo sempre che i camerieri incaricati delle camere non sono i nostri camerieri personali. Rivolgiamoci a loro solo in caso di stretta necessità. Normalmente le mance sono regolate dalle singole compagnie di navigazione. Quelle italiane, le hanno rese praticamente obbligatorie. L’abbigliamento cambierà secondo il momento e in valigia metteremo almeno due abiti eleganti, per le serate di gala (per gli uomini vale lo smoking); per la sera in genere, un abito da cocktail con gioielli discreti per noi donne, giacca e cravatta per gli uomini.

Al ristorante potrebbe capitare di dividere il tavolo con altri viaggiatori, magari sconosciuti; in questo caso ci presenteremo subito e durante la permanenza al tavolo, eviteremo argomenti spinosi e magari noiosi in vacanza. Stessa regola per il ponte esterno con le piscina e le vasche idromassaggio. Rilassiamoci e facciamo rilassare gli altri.

In barca. Personalmente non ho mai fatto una vacanza in barca, ma spero di risolvere prossimamente. Il bagaglio sarà ridotto e le calzature saranno adatte al pavimento dell’imbarcazione. Se prenotiamo una barca con equipaggio, dovremo rispondere al comandante dei nostri comportamenti; se invece siamo invitati su una barca privata, senza equipaggio o servizio, potrà esser richiesta la nostra collaborazione. E penso proprio che sarebbe divertente. Se soffriamo il mal di mare, declineremo l’invito. A nessuno piacerebbe guardare la nostra faccia verde per la nausea.

Bene, credo di aver scritto tutto quello che dovremmo sapere. Se avete esperienze da raccontare, o regole da aggiungere, le aspetto nei commenti. A presto

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Dopo non esser riuscita a leggere “Il serpente piumato” mi sono detta che D.H. Lawrence meritava una seconda possibilità con un altro romanzo. E infatti, è andata molto meglio.

Per dirla tutta, quando andavo all’università Lawrence era uno degli scrittori del programma del 1° anno, ma si trattava di una raccolta di short stories, di cui non ricordo nulla, lette in aula da una docente che aveva un ottimo accento inglese, nonostante la spiccata baresità. Questo invece l’ho scelto dalla piccola libreria che ho in camera da letto (ho quasi 300 libri in camera da letto), un sabato sera autunnale, uno dei tanti in cui il massimo della mondanità era scegliere in quale stanza della casa leggere. Questo romanzo uscì nel 1928 ma fu subito bloccato e solo nel 1960 fu rimesso in stampa. Il motivo della messa al bando fu la trama ma soprattutto la descrizione molto esplicita delle scene d’amore e sesso.

La Trama. Lui, lei, l’altro, le miniere di carbone, e il grigiore intorno. Un aristocratico finito sulla sedia a rotelle durante la I Guerra Mondiale, una giovane colta e moderna ragazza che ha viaggiato prima di sposarsi. Lui è Sir Clifford, lei Lady Constance, ma nel romanzo Connie. E poi c’è il guardiacaccia, Oliver Mellors. Assunto da Clifford, è il classico bel tenebroso, un po’ rozzo, asociale, poco incline alle buone maniere; vive solo in una casetta (forse una capanna, non ricordo bene) all’interno della tenuta. Descritta così sembrerebbe una trama facile, da soap opera. E invece, è una storia di ipocrisia, noia, perbenismo da un lato e amore, riscatto sociale, coraggio dall’altra.

Nelle intenzioni di Lawrence non c’era certo un romanzo rosa/rosso; l’idea era arrivata dalla crisi delle miniere di carbone successiva alla fine della Grande Guerra: una storia di contrapposizione tra classi sociali e di sollevazione dei poveri contro i ricchi, di rifiuto delle regole della società del suo tempo. L’infedeltà coniugale, è mal vista solo perché avviene al di fuori dell’ambiente di appartenenza. Clifford vuole a tutti i costi un erede, ma la sua malattia gli impedisce di diventare padre. Potrebbe persino accettare che la moglie abbia un figlio da un altro uomo, purché rimanga nella sua sfera di appartenenza.

Quello che non può sapere e che una volta scoperto non potrà accettare, è che invece la moglie si innamora di un dipendente della tenuta, insomma non certo un uomo abbiente. Ma sarà proprio questo amore a liberare Connie dal clima arido, cinico e freddo che regna nella sua lussuosa casa e sarà sempre questo amore a liberare Oliver dalla sua corazza di uomo solitario e indifferente ai sentimenti profondi. Chi invece non avanzerà è proprio Clifford, chiuso nel suo mondo che ancora respira rigore vittoriano. L’unico personaggio che sembra imperturbabile, è Mrs Bolton, domestica di Clifford, con il quale ha un legame di fiducia e lealtà.

Mi accorgo che, contrariamente al solito, mi sono spinta un po’ oltre nella narrazione della trama, per cui rimedio e mi fermo qui. Se deciderete di leggerlo, in alcune pagine vi sembrerà di visualizzare chiaramente quello che starete leggendo. E, soprattutto, vi colpirà il linguaggio diretto e come posso dire…Verista?

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Quando uscì avevo 2 anni. L’ho visto che forse ne avevo 14/15; diciamo abbastanza per essere gelosa di Sofia Loren. Ma poi, tutti gli attori americani di quel periodo erano belli, affascinanti e bravi. Si poteva non esser gelose? No.

Chi non lo ha mai visto si starà domandando chi fosse il protagonista maschile: ma lui, Marlon Brando!

Ebbene, per chi conosce Brando di mezza età è difficile immaginarlo in ruoli romantici e in commedie brillanti. E invece, già in “Fronte del porto” del 1954, si era avvicinato al filone romantico, anche se non si può certo dire che fosse una commedia.

Il regista fu Charlie Chaplin e la critica cinematografica lo criticò per aver ceduto alla direzione di un film leggero e sostanzialmente minore, rispetto ai suoi precedenti lavori. Noncurante, si occupò anche della sceneggiatura e delle musiche.

Chaplin, esattamente come Hitchcock, si divertiva ad apparire in piccole scene, camei, e in questo film è un maggiordomo in preda al mal di mare, durante una traversata turbolenta.

La trama si svolge praticamente su un piroscafo di lusso. Per essere più precisa, più della metà della storia si svolge nella suite della nave. Un ricco diplomatico americano conosce, durante uno scalo a Hong Kong, una contessa russa. Lei è profuga per via dei fatti che riguardano la sua patria ed è intenzionata a entrare negli Stati Uniti. Ma non ha passaporto. Quando Ogden Mears (Marlo Brando) ritorna sulla nave, scopre che Natasha Alexandroff (Sofia Loren) si è introdotta di nascosto proprio nella sua suite. Da qui, parte una serie di gag con la Loren che cerca di ammorbidire Brando, e lui che tiene duro spaventato dalle conseguenze di uno scandalo, se si sapesse che nasconde una clandestina nel bilocale della nave. Considerando pure che è in procinto di divorziare.

Di stampo teatrale il gioco di porte che si aprono e chiudono, a sostegno della trama e che contribuiscono a dare una certa piacevolezza a tutta la storia. Un espediente usato spesso nelle commedie di quel periodo.

Bene, io mi fermo qui e il resto scopritelo da soli. Buona visione, ce n’è per tutti!

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Questo è un argomento buono per più di una categoria. Ho scelto “Antiquariato” ma non escludo che in futuro ci torni su per parlarne ancora, sotto altri aspetti.

Sull’origine degli occhiali ci sono molte teorie. I Greci avevano scoperto che una palla di vetro riempita d’acqua aveva il potere di ingrandire gli oggetti. In linea di massima, pur se con nomi e riferimenti diversi, si concorda sul fatto che l’invenzione degli occhiali risalga al 1200, in Toscana. Nelle ricerche che ho fatto c’è un nome che ritorna: Salvino degli Armati. Con molta probabilità è a lui che si deve l’invenzione degli occhiali. Naturalmente, all’epoca si trattava di un oggetto veramente essenziale; due lenti tenute insieme da un ponticello che poteva essere di rame o cuoio. Il risultato era una struttura rigida che richiedeva un certo impegno, di tenerla ferma sul naso e in equilibrio, da parte di chi la inforcasse.

Con l’invenzione della stampa e la maggiore diffusione di libri, aumentò la richiesta di occhiali e quindi la produzione, avviata anche a Venezia. Inoltre fu sempre durante il Rinascimento che i modelli furono prodotti con materiali più flessibili, che si adattavano meglio al viso. Poi arrivarono gli occhiali con nastri, da fermare dietro l’orecchio, ma nel 1700 apparvero i cosiddetti “occhiali tempiali”. Erano modelli con stanghette che si poggiavano sulle tempie ma anche con stanghette molto lunghe, (divise in due da una cerniera) che circondavano la nuca.

Sempre in questo periodo furono prodotti, a Venezia, gli “occhiali da gondola” con lenti verdi, per proteggersi dal Sole. A dir la verità, già Nerone usava una lente di smeraldo durante gli spettacoli al Colosseo. “Pince-nez” e “Face-à-main” furono modelli molto in voga nel 1800. I primi, detti anche “stringinaso”, aderivano al naso grazie a una molla. Erano prevalentemente maschili, come pure il monocolo che si incastrava tra occhio e arcata sopraciliare. I face-à-main avevano un bastone verticale, spesso intarsiato, con il quale di fatto l’occhiale si teneva con la mano. Erano femminili e di lusso, delle piccole opere d’arte.

I “fili” erano occhiali in alluminio, estremamente sottili e leggeri. Detti anche “alla Cavour” furono in voga nel 1800. Poi arrivarono gli occhiali sportivi, da automobilismo, da motociclismo e da sci. E nel XX secolo furono i Persol 649, i Ray Ban, e gli occhiali “da divo” i modelli cult, ancora in produzione.

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