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Aprile 2021

È carina già dal nome, ma è carina davvero in ogni caso. Martina Franca sorge sulle colline della Murgia ed è in provincia di Taranto. Il doppio nome è antico e nello specifico “Martina” deriva dalla devozione a San Martino di Tours, mentre “Franca” si deve a Filippo I d’Angiò che concesse alla città alcuni benefici in termini di tasse. E’ nella Valle d’Itria, insieme a Cisternino e Locorotondo. La Valle d’Itria è una fetta di territorio della Puglia e coincide con la Murgia meridionale.

La storia di Martina Franca, assomiglia a quella di tanti comuni del Meridione. Longobardi, Saraceni, Svevi e Angioini furono popolazioni e casati che governarono la città. In più, tra il 1300 e il 1400 una comunità ebrea allontanata dalla Francia, si stabilì proprio in questa città, o meglio nella sua periferia. La convivenza non fu facile, e anzi molti ebrei cedettero alla conversione forzata al Cristianesimo, dopo avere subìto maltrattamenti e, in ogni caso, senza mai ottenere il permesso di vivere in città.

Lo stile architettonico prevalente è il barocco e la Basilica di San Martino edificata nella metà del ‘700 è l’esempio più calzante, in Piazza Plebiscito. Incantevole la statua del santo patrono che cede il suo mantello al mendicante. La potete ammirare sulla facciata esterna. Anche all’interno ci sono opere d’arte interessanti, le reliquie di Santa Comasia e il presepe di Stefano da Putignano. Piazza Maria Immacolata è considerato il salotto della città, anche per via della forma semiellittica e dei portici che insieme creano un effetto avvolgente.

Il Municipio è ospitato all’interno del Palazzo Ducale, edificato nel 1600 e conosciuto per i suoi affreschi nelle sale del Mito, dell’Arcadia e della Bibbia. Martina ha diversi palazzi nobiliari, ma il più antico è Palazzo Turnone, di una antica e potente famiglia napoletana.

Vi segnalo, ma non lo conosco personalmente, il Museo del Bosco delle Pianelle, una riserva naturale dove si preservano specie vegetali e animali.

Per gli amanti della musica classica, il Festival della valle d’Itria è senza dubbio un appuntamento che non si può mancare; si svolge in estate e se non sono male informata, quest’anno si svolgerà tra la seconda metà di luglio ai primi di agosto. Covid permettendo.

Buona vacanza in Puglia

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Ho già raccontato dei miei giochi da piccola? Fra i preferiti c’era l’ora del tè. Prendevo un servizio di porcellana bianca, anni ’60, regalo di nozze dei miei genitori; una tovaglietta adatta, ricamata a mano e apparecchiavo per terra. Apparecchiavo per 4 anche se ero da sola, e davo il “lei” di cortesia a tutte le altre immaginarie signore. Non ho mai rotto nulla e ho giocato così per qualche anno.

Vediamo invece, cosa fare quando gli ospiti sono reali e non immaginari.

Anche se, tradizionalmente, il tè delle 5 è considerato un evento poco laborioso, la forma non va trascurata: invitare con il giusto anticipo è preferibile. Se si dispone di un giardino e se il tempo lo consente sarà bello allestire all’aperto. Altrimenti il salotto di casa andrà benissimo. Solitamente, si organizza per pochi intimi e quindi il divano e un tavolino dedicato al servizio, saranno sufficienti a far stare comodi tutti; se però, il numero degli invitati e superiore alla capienza delle sedute, potremo apparecchiare la tavola: una tovaglia ben stirata, un servizio in porcellana e dei vassoi con pasticcini di vario tipo, faranno il resto. Se la tavola è lunga, occorrerà più di una teiera. In più, dal momento che sono davvero in pochi quelli che bevono il tè così com’è, non dimentichiamo zucchero, latte e limone.

I puristi e conoscitori del tè, lo preferiscono sfuso, tuttavia se nelle vostre vicinanze non ci sono negozi specializzati, quelli in bustina di buona qualità, andranno benissimo. E naturalmente, ma usare acqua di rubinetto per prepararlo. Nel frattempo sono arrivati tutti, e anche quando ci sono i domestici, tocca alla padrona di casa versare il tè nelle tazze. Questo ci riguarda se invitiamo.

Se siamo invitati, oltre alle note regole del convivio, ricordiamo di vestire in modo sobrio, trattandosi del pomeriggio, e che è appropriato portare un piccolo dono. Sulla puntualità non devo aggiungere niente, ma mi raccomando.

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Cercavo un titolo fra le mie librerie (quanto mi piace questo plurale!) per l’articolo di oggi, e invece poi ne ho scelto uno dalla libreria di mio padre. Sto parlando di un romanzo di Giovannino Guareschi, uno dei più divertenti, e per la precisione il secondo in ordine cronologico, da lui scritti.

E’ una parodia dei romanzi “cappa e spada”. In realtà, non c’è né l’una né l’altra. C’è però tanto umorismo, colpi di scena, amore e azione, e una costruzione linguistica molto molto raffinata. Poi i nomi dei personaggi, della città da cui parte la vicenda e dell’isola in cui continua: Nevaslippe e Isola di Bess. Alla fine, Clotilde è il più comune.

Dunque Clotilde Troll è una ragazza tanto ricca quanto eccentrica. È bella e circondata da cicisbei pronti a tutto pur di avere le sue attenzioni (e forse i suoi soldi) ma lei è innamorata di Filimario Dublè, giovane che però ha perso tutte le sue ricchezze, e non ricambia l’amore di Clotilde. Filimario, all’età di 6 anni scappa da casa pur di non dover bere l’olio di ricino imposto dalla madre, viene accolto da uno zio e conduce una vita avventurosa e spensierata; alla morte dello zio rimane senza un soldo. Clotilde sa che Filimario non ricambia il suo amore, ma non si dà per vinta e lo invita a partecipare ad una crociera sul suo panfilo, fingendo che sia una vacanza, in realtà è un rapimento. Altri due personaggi partecipano al viaggio per mare, Pio Pis e Settembre Nort.

Il panfilo è diretto all’Isola di Bess dove Clotilde ha una villa. Questa villa è occupata da una banda di pirati o contrabbandieri (questo non lo ricordo bene), capeggiati da una donna, Ketty.

Come ho anticipato all’inizio, i colpi di scena non mancano e tutta la trama e molto dinamica. Quello che ho raccontato è solo l’inizio ma vi assicuro che leggerlo vi farà dimenticare questa quarantena.

Buon divertimento!

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Paul Newman e Joan Woodward sono i protagonisti di questo film sentimentale del 1960, diretto da Mark Robson. Due anni prima si erano sposati e resteranno insieme per sempre. Coppia nella vita e spesso coppia sul set, hanno rappresentato il simbolo dell’amore e della solidità coniugale, riuscendo egregiamente a mantenere lontano i riflettori, da tutto il loro privato. In questo film invece, sono una giovane coppia, Alfred e Mary, che poco dopo il matrimonio attraverserà una crisi profonda.

Alfred è un giovane benestante appesantito dall’atmosfera rigida e deprimente della sua famiglia; decide così di rifiutare la proposta di lavoro di suo padre e fonda una società con un vecchio amico. In più, sposa Mary, bella e intelligente ragazza, anche lei benestante. Il lavoro non si rivela soddisfacente e Mary, un po’ annoiata nel suo ruolo di moglie, ricomincia a frequentare un ex fidanzato, ignorando i rischi di una relazione clandestina.

Un giorno, Alfred si trova per caso sulla scena di un incidente ad un bambino; gli salva la vita e il nonno, ricchissimo, lo ringrazia offrendogli un lavoro prestigioso che migliorerà molto la sua posizione sociale.

Da qui in poi, tutto il film sarà incentrato sulla decadenza dei valori matrimoniali, su una coppia che comprende benissimo i limiti di un matrimonio mal riuscito ma che fatica a scrollarsi di dosso il peso del severo giudizio dell’alta società, bella e luccicante. Dietro quel luccichio c’è noia e rimpianto e un vago senso di rassegnazione fino a quando la vita non cambierà il senso della ruota, con avvenimenti inaspettati ma rilevanti.

Mark Robson, il regista, riesce bene nel progetto di rappresentare questa società patinata, apparentemente felice, che guarda dalla terrazza (appunto), cioè da un punto alto e privilegiato, la vastità del mondo di sotto.

Vi ho convinti? Guardatelo

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L’ombrello è stato l’argomento di uno dei primi articoli di questo blog, però in un’altra categoria.

Questa volta scriverò della sua storia. Ha origini asiatiche, probabilmente cinesi ma si dice che anche in Egitto fosse già conosciuto. In Giappone proteggeva i samurai, e in Grecia era usato dalle sacerdotesse di Dioniso. Quando fu inventato, era destinato esclusivamente alla nobiltà e fino alla fine del 1700, era concepito per proteggersi dal sole. Notoriamente era retto da un servitore. Gli ombrelli in uso in Italia, erano particolarmente pesanti, poiché avevano la copertura in cuoio. Successivamente il cuoio fu sostituito da seta e taffettas, con ricami e applicazioni di pietre e perline, rendendo gli ombrelli, non solo più leggeri ma anche più belli ed eleganti. Anche le impugnature si distinsero per bellezza con l’uso di avorio, porcellana e tartaruga. La Chiesa utilizzava questo comodo accessorio durante le processioni; inoltre, un ombrello era spesso presente nei dipinti che ritraevano i papi.

A partire dal 1800, l’ombrello diventò anche parapioggia e soprattutto entrò anche nel mondo maschile: fino a quel momento, infatti, era stato considerato un articolo esclusivamente femminile.

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