Righe quadri e pois

Qui scriverò di cose varie, così come le avrò osservate o vissute.

Ricordate Ernesto Calindri, seduto a un tavolino al centro strada, mentre beveva un amaro al carciofo (e altre 13 erbe)?

All’epoca ero piccola, ma mi faceva letteralmente impazzire l’aria imperturbabile di questo signore che, completamente concentrato a bere il suo Cynar, non si curava di tutto il resto.

Voi cosa fate contro il logorio della vita moderna?

Io, per dirne qualcuna, leggo. Da quando ho imparato a leggere, l’ho sempre trovato un ottimo salvavita. Durante l’adolescenza poi, leggere mi ha letteralmente salvato e non dal logorio, ma dalla noia.

Quando posso guardo il mare. Da casa mia, il mare non si vede; da casa mia vedo le colline e la superstrada e quando è buio le luci delle auto che sembrano formiche in fila. Perciò, al mare devo proprio andarci ma va bene così.

Guardo un film. Se straniero, in lingua originale con i sottotitoli, sennò doppiato. Se scelgo un film italiano, so che mi piacerà, o almeno è quello che succede la maggior parte delle volte.

La musica la ascolto poco, anche se mi piace. Non tutti i generi, però. Mi piace ascoltarla soprattutto in auto, mentre guido.

Eh già, stavo dimenticando la guida. Dell’auto, s’intende. Quando guido sono molto a mio agio e questo era chiaro già da piccolina, quando guidavo il mio go-kart rosso oppure al luna park, nel settore delle auto da scontro. Ma se leggete i miei articoli, questa passione per la guida la conoscete già, giusto?

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Se c’è una cosa che sono sempre riuscita a scansare, ai tempi della scuola, era l’immancabile compitino sulla Primavera. Già alle elementari lo trovavo banale. Magari non avrei saputo dire “banale” ma sicuramente la maestra Carmela avrebbe compreso tutto, guardandomi.

Perché ci sono parole che hanno dentro tutto il necessario e non richiedono nessun approfondimento. I nomi delle stagioni, per esempio. Si potrebbe obiettare che questo valga per tutte le parole, correnti o in disuso. Secondo me, no. Che poi, non ho mai saputo perché le altre stagioni non meritassero altrettanta attenzione.

Sempre durante la scuola, ma alle superiori, mi incantavo a guardare gli alberi di pesco e di mandorlo che fiorivano proprio in questo periodo, e che vedevo dal finestrino del pullman. Il tragitto da un paese all’altro, andata e ritorno, era la parte migliore dell’intera mattinata scolastica. Questo campo di mandorli e peschi, vagamente giapponese, rinforzava il mio umore e contribuiva ad abbassare il livello di noia che mi ha accompagnato per tutta l’adolescenza. Poi sì, anche altro.

Sul mio balcone, a partire da fine marzo, parecchie api si danno appuntamento e sarò sincera, un po’ le temo, ma è indubbiamente positivo che ci siano. Poi arrivano anche i gechi, ma questa è un’altra storia. Ho la fortuna di godere di un gran bel giardino. E’ condominiale, ma c’è spazio per tutti e durante la scorsa quarantena, come in questa, è stato un bene prezioso.

Un’altra cosa che migliora molto il mio umore è l’ora legale. Quella luce in più che governa le giornate fino all’autunno, simula un tempo maggiorato che è solo una idea, però è sufficiente a credere di poter fare più cose, perché la giornata sembra non finire mai. Tra l’altro, scatta proprio stanotte.

A voi piace?

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Stamattina, mentre camminavo in centro, mi è venuta in mente questa frase. Non è che stessi facendo niente di particolare, se non camminare in una giornata di sole, ma fredda. Sarà stato proprio il freddo e l’idea di estate lontana a farmela pensare.

Resta che è questo che penso davvero: non c’è niente di sentimentale nella pazienza, perché invece è una pratica del tutto razionale. Ed è un esercizio costante che inizia da piccolissimi. Probabilmente, anche le persone poco pazienti o molto poco pazienti, hanno imparato qualcosa in merito. Magari non lo sanno ma essere nella fila più lenta, tra tutte le file degli uffici pubblici senza lamentarsi, è esercizio di pazienza.

Quando si è piccoli è un continuo sentirsi dire “Potrai farlo quando sarai più grande”. Che è anche normale: ci sono cose che richiedono una età specifica. Il punto è che per un bambino è un concetto astratto. Grande quanto? Grande inteso come alto? Oppure con più anni? Così, giusto per fare un esempio personale, un giorno di diversi anni fa, mia figlia la primogenita mi chiese quando avrebbe potuto cucinare e io che stavo per cascare nella risposta di sopra, mi ripresi un attimo prima, e le dissi “Quando sarai più alta dei fornelli”. Siccome sorrise, capii che l’avevo soddisfatta e siccome le mie figlie sono alte, l’attesa è stata breve. Ma anche quello fu un esercizio di pazienza.

A me che a ottobre mi metto in modalità attesa dell’estate successiva, occorre molta pazienza. Ma in genere è una qualità che mi riconosco e che mi ha aiutato in tante circostanze.

In teologia è considerata una virtù, perché riesce a dominare le angosce, le azioni senza giusta riflessione e vince sui cattivi propositi. A me ha dato la certezza sulla conclusione di questioni che, se gestite con la fretta, non avrebbero dato buoni risultati. Anzi, posso dire che grazie alla mia pazienza, alcune cose sono andate dove dovevano andare (e qui ciascuno ci metta del proprio), senza alcuno sforzo da parte mia.

Quindi pensiamoci tutte le volte che contiamo fino a 5: non basta, dobbiamo arrivare a 10. E se non basta lo stesso, dobbiamo ricominciare daccapo. Inspirare profondamente ed espirare, mettendo in tutti quei secondi la sequela di “cosucce gentili” che pensiamo ma non possiamo dire.

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Sbuffate? Tutti i giorni? Quante volte al giorno? Ve lo chiedo perché a me succede ma se mi guardo intorno, ovunque mi trovi, non vedo gente farlo. Quindi lo faccio solo io?

È successo, per la prima volta anni fa, in seguito ad alcune vicende personali e familiari. Era diventata una abitudine: già di prima mattina mi capitava di sbuffare, anche se apparentemente non c’era un motivo valido per farlo. La cosa mi aveva messo in guardia perché volevo e dovevo risalire all’origine di questo effetto. E poi, sapete quanto mi piacciano le buone maniere, e sbuffare non rientra tra queste. Mi consolava il fatto che sbuffassi in casa, fuori mai. Questo non voleva certo dire che l’origine di questo atto involontario fosse nel posto che più mi piace: casa mia, appunto. Forse, semplicemente, stava a indicare che a casa mia mi sentivo libera di esprimere questa insofferenza. Ma perché lo facevo?

Ho iniziato a concentrarmi sulle mie giornate, sulle persone con cui mi relazionavo, sul tempo libero. Sul lavoro no, perché in quel periodo non ce l’avevo. Le mie giornate erano quelle di una disoccupata-casalinga forzata. Intendiamoci, come ho scritto sopra, la mia casa è il mio posto del cuore ma la ripetitività delle faccende domestiche mi annoiava. Poteva essere quello il motivo? Escludo le persone, perché erano le mie figlie, la mia famiglia di origine e gli amici di sempre. Il tempo libero nemmeno, non ho mai avuto problemi a gestirlo come piace a me.

Allora ho cercato l’argomento su pubblicazioni di psicologia e siccome sbuffare è un sintomo, a dispetto dell’antipatia del gesto, ha un valore positivo perché “costringe” a indagare sull’insofferenza che sta portando alla luce. Può essere temporanea e durare qualche giorno, giusto il tempo di risolvere una questione contingente di vita quotidiana; oppure duratura e magari aumenta e allora l’indagine deve essere rivolta verso se stessi.

E’ molto importante non trascurare questa condizione, perché infine è il nostro cervello che ci avvisa che stiamo percorrendo una strada che non è la nostra, stiamo subendo decisioni che non sono le nostre e ignorare questi segnali può rovinare la qualità della vita e magari i rapporti con gli altri, in qualsiasi contesto.

Nel mio caso, la motivazione era il senso di immobilismo che provavo, dopo aver lasciato la mia attività di antiquaria. Se devo dirla tutta, non c’erano in quel momento altri lavori che avrei fatto con la stessa passione. E sono passati molti anni prima di ricominciare a occuparmi di antiquariato, anche se in un modo un po’ differente.

Dopo aver individuato il punto di partenza, magicamente smisi. Il sintomo non serviva più. Da qualche mese però, ho ricominciato, e quindi dovrò rimettermi a lavoro per capire di cosa si tratti. E comunque, investigare mi diverte.

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Prima di iniziare a scrivere ho dovuto raccogliere e mettere in ordine ciò che penso di questo argomento.

Parto dai miei nonni. Il nonno materno è stato il classico imprenditore che si è fatto da sé. Ha iniziato da giovanissimo, ha fatto la gavetta e anche quando sapeva di essere arrivato, non ha smesso un solo giorno di lavorare sodo. In estate, con la nonna prendevano una casa in campagna ma lui, ogni mattina andava in città a piedi, e anche quando era ormai anziano camminava con passo agile. E questa era la prima decisione della giornata. Mia nonna invece, teneva in riga 7 figli, tra cui mia madre.

Il nonno paterno era un militare di mare. Per intenderci, comandava. La nonna invece, teneva in riga 4 figli, tra cui mio padre.

I miei genitori hanno ereditato l’attitudine al comando dai loro. Che poi non è banalmente dare ordini e sghignazzare per la soddisfazione di essere obbediti. È proprio saper prendere decisioni per sé e per gli altri, anche in condizioni critiche, e saperlo fare bene.

Mio padre è sempre stato a capo di qualcosa, che fosse il suo lavoro o i suoi tanti hobbies; lui è sempre in cima e quasi mai per scelta sua, sempre per scelta degli altri. Per il suo lavoro ha dovuto spesso prendere decisioni in pochi minuti, anche decisioni salva-vita. Mia madre era stata scelta per sostituire la sua, quando necessario, nella direzione della grande casa di una grande famiglia. Così, tutte le volte in cui, in vita mia, ho fatto test attitudinali, la risposta è sempre stata: hai doti organizzative e di comando. Confesso che mi piace un sacco: decidere, pianificare e organizzare. Non sempre arriva tutto nell’immediatezza che pretendo da me, ma poi arriva.

Ho letto che decidere è un processo che a volte porta con se una certa ansia: ansia da decisione. A me viene se non sono io a farlo. Voi cosa fate quando dovete prendere una decisione?

Io per esempio evito gli stati d’animo un po’ estremi, troppo arrabbiata o troppo radiosa non sono un buon punto di partenza per prendere decisioni. Così come, se è vero che mi piace avere le cose sotto controllo, è anche vero che questo controllo non lo esercito in modo continuo (e anche questo lo devo decidere io). Allentare è necessario, perché osservare le cose da una distanza, anche minima, consente di valutare e agire di conseguenza; e magari di accorgersi che la decisione presa non era poi così giusta. Questo fa parte della vita. Che poi, dalla mattina alla sera, è tutto un susseguirsi di decisioni. Cosa mangio a colazione? Come mi vesto? Tacchi alti o bassi? Auto o camminata? Mi trucco? Devo fare quella telefonata, sì ma non oggi…E via di seguito…

Una cosa che mi capita, a volte, è l’indecisione sulle opzioni multiple. Già quando abbiamo due alternative potrebbe sembrare facile scegliere e decidere, ma poi non è detto che lo sia. Quando sono più di due, è tutta un’altra storia. Perché è assai probabile che la cosa giusta da fare sia più di una. Quindi calma e gesso. E poi ci sono le conseguenze dietro ogni decisione. Anche qui, bisogna essere lucidi e prendere il tempo che serve; immaginare e valutare le ricadute è utile perché consente di ridurre i danni, quindi bando all’impulsività. Del resto la parola decidere viene dal latino “de caedere”, che significa “tagliare via”, quindi è implicita l’eliminazione della o delle alternative. Bisogna solo sentirsi pronti a lasciar andare, ciò che sappiamo bene non essere l’opzione migliore.

Quindi ricapitolando le fasi sono: problema, soluzione, decisione, azione, accertamento. E da queste non si scappa. In bocca al lupo!

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Stavo per intitolare questo articolo “Relax e stress”; poi ho pensato che queste due parole sono entrate nella nostra lingua (e soprattutto nel nostro parlato) un po’ troppo, e che sostituendole con dei sinonimi avrei potuto dare un senso meno prevedibile. Per prima cosa, mi sono chiesta cosa sia per me il relax.

E mi sono persa.

Non è che non lo sappia, al contrario, è proprio che per me vuol dire tante cose. Intanto tutto ciò che per me è bello, più che elettrizzarmi mi rilassa. Sì, poi succede anche che mi carichi, ma di acchito mi rilassa.

Una bella giornata di sole, la prima colazione da sola o con le mie figlie, il caffè o un dolce al caffè, il mare, un piatto di pasta, una lettura intrigante, un’amaca, una mostra di pittura, un vestito bianco, un oggetto antico e poi guidare.

Guidare mi rilassa molto, e come ho già scritto qualche articolo fa, l’ho capito già con un go-kart a pedali che mi fu regalato da bambina. Da diversi anni, però, ho scoperto il piacere di passeggiare o camminare a passo alto e cerco di farlo quotidianamente. Quasi ogni domenica lo faccio con Annalisa e concludiamo con una colazione al bar.

Viaggiare in pullman, comprare cose, stirare, guardare un film mentre stiro, ascoltare musica. Stare al telefono, rimanere a letto un po’, solo un po’ al mattino quando la luce entra dai buchi della tapparella. Dormire al buio completo non mi piace: così, faccio in modo che di notte si intravedano le luci dei lampioni in giardino; al mattino la luce del giorno. Mentre scrivo, proprio adesso, guardare la pioggia fuori. I soldi. Sì, i soldi. E poi le promesse. Promettere è impegnativo ma anche rilassante, perché dietro una promessa c’è convinzione, determinazione e senso del dovere. E non mi rilassa solo fare promesse, mi rilassa anche riceverle.

Cosa mi crea tensione? La mancanza di precisione, le cose fatte o dette a caso, la bugia elevata a sistema, il disordine, dover cedere le armi, mangiare male, la maleducazione, rimanere senza soldi, le promesse non mantenute. E poi il mio romano quando mi fa arrabbiare.

Fine

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Gli unici tavoli da gioco che abbia mai visto di persona, si trovavano in un Casinò di Montecarlo in cui entrai, una volta di tanti anni fa, per curiosità e per provare le slot machines. Ricordo che a un tavolo di “Black Jack” c’era una giovane signora napoletana, molto carina e acqua e sapone, che scommetteva un milione (di lire, ovviamente) a ogni puntata, perdendo con il sorriso e senza scomporsi minimamente. Che è l’unico atteggiamento possibile, quando non si sappia come impiegare il denaro che si possiede.

Io, invece, alle slot vinsi ma senza sbancare il Casinò. Fu lo svago di una serata di agosto, senza intenzione di replicare. Per converso, ai giochi da tavolo mi sono appassionata da piccola. Sarà che li associavo all’autunno e all’inverno, al piacere di stare a casa con amici quando fuori era freddo, alla divertente competizione che si scatenava, insomma per anni mi sono divertita a comprare case e alberghi, e a volte finire in prigione. Non spalancate gli occhi: sto parlando del “Monopoli”. Nelle ultime edizioni si chiama “Monopoly”, ma per me non vale.

Normalmente i bambini iniziano con il “Gioco dell’oca”, io iniziai giocando a “Dama”. Mi piaceva la parola dama e anche il gioco non era male, per quanto devo dire che nell’aspetto non lo trovassi (neanche adesso) molto attraente. Poi arrivò il “Monopoli”, durante le feste natalizie del 1974. Stava anche per arrivare mio fratello, l’ultimo di casa. Chiuse l’anno, nascendo appunto il 31 dicembre. Dunque, dicevo che scoprì il “Monopoli” a casa delle cugine e mi piacque subito. Da allora e fino a qualche anno fa, ci ho giocato tutte le volte in cui ho potuto, e la cosa che mi piaceva più di tutte era scoprire le carte “probabilità e imprevisti”.

Poi è arrivato Risiko!

Il punto esclamativo faceva parte del gioco. Gioco di guerra individuale, con obiettivo segreto da raggiungere. Molto bello, strategia e azione. Eravamo un po’ diplomatici e un po’ guerrafondai. Ricordo che nell’inverno del 1987 dominò tutti i sabati e tutte le domeniche pomeriggio a casa dei miei, dove ancora vivevo. Con i miei fratelli e gli amici era un ottimo svago di fine settimana, e giocavamo dal primo pomeriggio fino a sera, quando poi ci spostavamo in pizzeria. Poi arrivarono “Scruples” e “Taboo”, giochi con le parole e “Inkognito”, intrigo di spie nella Venezia del 1700; gioco per niente facile. Mi piacciono tutti, ma il gioco delle atmosfere magiche è la “Tombola” che però merita un articolo a parte. Buon divertimento

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Il tema è serio. E’ serio perché piacersi è difficilissimo, più difficile di piacere. Intanto, e non lo sappiamo, questo processo inizia con la nostra stessa vita. Ma da neonati non abbiamo grossi impegni o responsabilità, se non mangiare e dormire. Riconoscere l’odore della pelle di nostra madre, la voce di nostro padre, e in ogni caso questi “compiti” sono istintivi, non richiedono alcuno sforzo.

Ogni progresso nella nostra crescita sarà pura gioia, soprattutto dei nonni, che ovviamente attribuiranno ai loro rispettivi figli, tutte le capacità intellettive di questo mondo che il nipote avrà ereditato. E per ogni progresso ci saranno accettazione o rifiuto, perché crescita e affermazione di sé passano da queste due possibilità. La cosiddetta “fase di opposizione”, nel mio caso si manifestò con il cibo: a 2 anni decisi che non volevo più mangiare (ma cosa avevo in testa???) e così prendevo il primo boccone e non lo ingoiavo. Questo duello tra me e mia madre o chiunque mi imboccasse, durava fino a quando i muscoli facciali non iniziavano a dolermi: a quel punto spruzzavo in faccia al malcapitato tutta la minestrina. Ovviamente il “nemico” si arrendeva. Non ho un ricordo personale di questo periodo, ma ho diverse foto che testimoniano la mia posizione irriducibile.

Poi arriva la scuola con prove e obiettivi nuovi, ma ugualmente impegnativi. Aumenterà il numero delle persone con cui avremo a che fare, e anche il numero delle persone che giudicheremo e che ci giudicheranno. E sempre, all’inizio di tutto ci sarà il nostro giudizio su noi stessi. Estetica, intelletto, carattere e temperamento. Saremo sempre pronti a incolparci di ogni cosa andata storta, anche piccola, incapaci di provare pietà per i nostri fallimenti. Come se fallire fosse irrimediabile.

Fallire avendo la certezza di aver tentato tutto il possibile, non deve essere un limite. Passata l’autofustigazione sarà opportuno e augurabile riprovare. Per esempio, concentrandoci sui nostri punti di forza. Ci sono, è solo che li abbiamo messi da parte.

Impariamo a stare da soli.

Questa è una cosa che spaventa molto, e molti. Stare da soli significa correre il rischio che la nostra parte più intima, faccia capolino e ci dica cose indesiderate. A me piace molto stare da sola e ogni giorno ho bisogno di un tempo, anche minimo, in solitaria. Ho scritto di proposito “in solitaria”. Perché, invece, solitudine ha una accezione negativa. E sarà forse questo il motivo per cui cerchiamo sempre la compagnia di qualcuno, a prescindere.

Ma saper stare da soli, dedicandoci al nostro passatempo preferito, oltre a sciogliere le tensioni, può far emergere cose della nostra personalità ancora sconosciute. E soprattutto può aiutarci a scoprire cosa non ha funzionato, cosa ha determinato il fallimento di un progetto. Scrivere con penna e carta, preparare una ricetta di cucina, suonare uno strumento, passeggiare, fare acquisti, leggere, disegnare, cantare e ballare, oppure semplicemente stare distesi a guardare il soffitto sono tutte cose semplici che se fatte da soli, hanno un valore e un potere differenti.

Avere pazienza.

Quanto sono belli i risultati veloci! Quanto ci piace avere soddisfazione immediata dalle cose che facciamo e diciamo, specie se viene da chi ci sta intorno! Eppure, in un’epoca in cui la tecnologia ha portato nella vita di tutti noi la velocità e l’immediatezza che sta in un clic, imparare a saper aspettare ci toglie l’ansia da prestazione e da risultato. Avere pazienza modifica il nostro respiro.

Guardarsi allo specchio.

Spesso sento dire “Non mi guardo mai allo specchio”. Sembrerà impossibile, e invece io credo che davvero qualcuno rifiuti di farlo. E qui vengo al tema dell’accettazione del nostro fisico. Qualcosa ci piacerà, qualcosa no. Se potremo migliorare quello che non ci piace, bene. Io avrei voluto qualche centimetro di altezza in più. Posso rimediare? No. Amen. A volte metto i tacchi: cambia poco, ma faccio quello che posso con quello che ho. Quello che non farò mai (anche se “mai dire mai”) è mettermi nuda sulla copertina di un giornale, fingendo fierezza per dei chili in più che mi danno delle forme morbide, quando il messaggio vero è: “Accettatemi voi perché io non ce la faccio”.

In definitiva, chiedere scusa per come si è fisicamente o per le proprie idee è un boomerang, perché crea un precedente: dà agli estranei il potere di modellarci e di dirigerci. E noi non lo vogliamo.

Vi aspetto nei commenti

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Il rischio che alla fine venga fuori un articolo melodrammatico è alto, ma prometto di fare il possibile per evitarlo.

Avete presente un mosaico o un puzzle? Ebbene, se manca una sola tessera, molto probabilmente sarà questo dettaglio che poi ci resterà in mente. Non il soggetto, non la bellezza, né l’equilibrio dei colori. Semplicemente, quell’unico pezzo che non c’è.

Un po’ come quando siamo di fronte a un quadro appeso, ma storto: non guarderemo il dipinto fino a quando non avremo raddrizzato tutto. Sempre che ci sia permesso, tra l’altro. Così è la nostalgia. Tutte le cose belle del presente, tutte le previsioni di bellezza delle cose future rischiano di essere toccate dalla nostalgia del passato. E parlando di me, invece di godermi ogni giorno di questa estate, anche se molto particolare, ho pensato alle estati da bambina. Abitavamo a Bari, ma a scuole chiuse, ci trasferivamo in una villa al mare, in località Capitolo, fino a fine agosto; a settembre passavamo in campagna con i nonni materni in una contrada che si chiama “Antonelli”.

La cucina di nonna Oronzina, le passeggiate con nonno Giovanni, la fila di ville, il buongiorno agli altri villeggianti, il Santuario a Maria Santissima in un viale di pini, la farmacia e la bottega della zona erano un quadretto perfetto che ci godevamo fino a fine mese. Poi si tornava in città. La scuola, all’epoca iniziava a ottobre.

Questa consuetudine si è ripetuta per alcuni anni, fino a quando vicende parentali non hanno modificato alcuni aspetti. Così al posto di una villa al mare e una casa in campagna, è arrivata una roulotte. Ecco, le estati più divertenti, più ricche di risate e spensieratezza sono state proprio quelle in campeggio. Oltre ad aver sperimentato una certa capacità familiare all’adattamento, al contatto strettissimo con la natura, anche la facilità con cui si stringevano amicizie, che in alcuni casi sono rimaste nel tempo. In altri no, si sono perse per strada, a volte già sulla via del ritorno a casa, a vacanze finite.

Poi la nostalgia di alcune compagne di classe. Tranne che in pochissimi casi, non ci siamo cercate. Magari rimandiamo, per timore di chissà che cosa, oppure semplicemente non ci interessa ritrovarci.

Della nostalgia dei miei levrieri vi ho parlato giorni fa. Poi la nostalgia di oggetti e mobili di antiquariato che negli anni ho venduto controvoglia; sì, mi è capitato anche questo. Vendevo perché il mio lavoro era vendere e alcuni mobili e oggetti se ne andavano liberamente, per altri invece era come se mi stessero togliendo un pezzo del mio corpo. E anche questo sembra molto la tessera del mosaico che non c’è, perché a oggi, penso molto alle cose belle che sono andate in casa d’altri, invece di godermi quelle che ho in casa mia.

Poi c’è la nostalgia del tempo in cui le mie figlie erano più piccole ed eravamo un trio molto ben assortito. Con le ovvie similitudini e diversità, ma ben incastrate. Nel tempo, i nostri rapporti si sono modulati e rimodulati, e questo è fisiologico in tutte le famiglie. Ma ciò che ultimamente mi manca con loro è il contatto fisico (e non c’entra il covid19) che normalmente è molto presente con i figli piccoli.

E per finire la nostalgia d’amore. È sottile e tagliente, ha radici forti e profonde. È una presenza invisibile ed è in tutti i momenti della giornata, è un sorriso ebete o un ricordo triste. In certi giorni riusciamo anche a distrarci, ci sentiamo stranamente leggeri e non capiamo bene perché. E proprio in quel momento capita una foto, il nome di un locale, un regalo, una riga scritta a mano, una camicia rimasta nell’armadio e quella breve leggerezza torna a essere un dolore silenzioso, e ci manca il passato che avevamo con quella persona e il futuro che non avremo. Ed è così tutti i giorni, in attesa di nuove nostalgie da aggiungere alle vecchie.

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Alaska e Indiano erano due levrieri inglesi, due greyhounds. Hanno fatto parte della mia vita un po’ di anni fa, e siccome la nostra convivenza si è interrotta di colpo e per scelta, l’ho pagata cara. Del resto non sono mai stata una impunita, e quindi so che per ogni errore mi arriverà un conto da pagare.

Dopo questa presentazione, sapete già che non sarà un articolo allegro o ironico, come spero lo siano stati gli altri.

1990. Alaska arrivò alla stazione di Monopoli, dal Cinodromo di Roma. Era per me. Spaventata dal viaggio e sola; non c’erano i suoi compagni di corsa, nemmeno i lavoranti del cinodromo. C’era una cassa in legno e lei era in questa cassa. C’era lo stridore dei freni del treno, il fischietto del capotreno, la cadenza ritmica del treno in viaggio, e neanche un goccio d’acqua. Io non sapevo ancora niente perché era una sorpresa, un regalo. Dopo un po’ mi venne portata e scoprì un mondo di cui sapevo pochissimo.

Era uno dei cani corridori che a 5 anni finiva la sua carriera, veniva ceduto gratuitamente a chi volesse prendere un cane già grande e senza impregnazione (imprinting, nel settore). Intanto lei non era più molto spaventata, ma disorientata sì; a parte i volti nuovi, la casa, c’erano le auto, i rumori del traffico, il passeggio estivo cose che lei non conosceva, come anche il guinzaglio al quale, però, si abituò già dopo un giorno.

Il suo libretto di lavoro dice che era una pluricampionessa: il coniglio bianco meccanico con lei non aveva scampo. Lontano dalle corse era timida e riservata, molto femminile nei lineamenti e con un passo felpato più da grosso felino che da cane. A proposito, il suo nome inglese era Charming Chimes.

Indiano arrivò dopo un mese esatto. Per ragioni di lavoro, Alaska rimaneva da sola per molte ore al giorno, per cui pensammo di prendere un altro cane, ovviamente della stessa razza e dallo stesso posto. Tutt’altra personalità. Indisciplinato, baldanzoso, un po’ disobbediente, sempre affamato ma anche molto simpatico. Molto.

Sul suo libretto di lavoro erano riportate diverse vittorie ma anche squalifiche poiché, spesso invece di rincorrere la lepre meccanica percorreva il circuito in senso opposto, per prenderla frontalmente. Ma il regolamento di gara non prevedeva questa opzione e, ridendo, ancora immagino le facce degli scommettitori. Insieme erano una bella coppia di opposti. Sembrava che Alaska fosse la sorella maggiore, saggia e paziente. Indiano, puro divertimento e poche regole.

Una sera, mentre trotterellava allegro e spensierato, fu investito da un ragazzo che proseguì la sua corsa senza neanche fermarsi. Dallo spavento scappò via e lo cercammo per giorni. Quando fu ritrovato, non aveva neanche un graffio: la sua muscolatura forte di corridore lo aveva protetto completamente. Vivendo in un cinodromo, praticamente protetti dal mondo, non avevano sviluppato molto il senso del pericolo.

Per diversi anni furono pezzi di famiglia: molto della nostra quotidianità ruotava intorno a loro, tranne il momento della tavola. Non ho mai apprezzato l’abitudine di tenere il cane accanto quando si mangia, sia perché la tentazione di passargli del cibo potrebbe vincere sulla opportunità di farlo, sia perché ci sono circostanze in cui , è meglio che i nostri cani o gatti, stiano sulle loro brande (tipo quando si hanno ospiti, magari allergici al pelo di animale). Per tenerli in allenamento e per tenere fede alla loro natura, quasi ogni giorno li portavamo a correre fuori città. Come tutti i levrieri, sono anche cani da caccia ma di questo aspetto non ci siamo mai occupati.

Ad un certo punto della mia vita, non potei più occuparmene e così pur rimanendo in famiglia, cambiarono città, anzi regione: la Liguria. Avevo loro notizie ma non li vedevo più, se non un paio di volte l’anno. Ovviamente un tempo insignificante se paragonato a quello in cui avevamo vissuto insieme. Loro molto offesi, si erano dimenticati di me e mi guardavano come se non mi avessero mai conosciuto e come se non fossi stata niente. Era il loro modo di punirmi ma all’inizio non detti peso a questa reazione. Poi, di colpo compresi che l’avevo fatta proprio grossa e data la distanza fisica, sarebbe stato praticamente impossibile riparare al danno. Passò altro tempo e passarono anche loro.

A pochi giorni di distanza, Alaska fu investita e Indiano scappò via, spaventato dai petardi natalizi, sempre in Liguria. Ultimo atto di un legame già interrotto. Dopo di loro non ho più avuto cani, ma se ricapitasse vorrei ancora dei levrieri.

Ah, stavo dimenticando di dirvi che il vero nome di Indiano era Blanco Special.

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