Quante volte ci siamo morsi le labbra un attimo dopo aver detto una parolaccia, a qualcuno oppure al vento (così solo per sfogare la rabbia)?
Se riusciamo a contarle, vuol dire che non sono molte e questo è buono. Quando si parla di essere e avere, di buone maniere non solo di facciata ma soprattutto di struttura personale, non si può prescindere dal linguaggio. Quello dei bambini è sempre divertente, il loro tentativo di ripetere le parole usate dai grandi è importante e va incoraggiato. Da parte degli adulti, è augurabile una certa attenzione ai contenuti, ma anche alla forma.
Normalmente, un bambino non dice parolacce ma, crescendo e interagendo, inizierà a far caso a tutta una tipologia di espressioni che non si addicono a chi abbia una buona educazione.
Superata la soglia dell’adolescenza, scoprirà che si trova nel punto più alto della parabola, che riguarda la modalità espressiva sciagurata, in cui parolacce e volgarità in genere, razzolano come pennuti in Piazza San Marco.
Forse, avere dimestichezza con il turpiloquio (non ricordo cosa accadesse nelle due o tre comitive che ho frequentato) gli servirà per essere accettato in un gruppo; durerà qualche anno, poi troverà il modo e la voglia di liberarsi dei condizionamenti del capobranco, e magari uscire dal branco.
Fino ad allora, eviterà le parolacce in casa con genitori e fratelli, con i nonni, e soprattutto se ci sono ospiti dei genitori. All’università o al lavoro, avrà sicuramente perduto la smania di farsi conoscere per le modalità al ribasso, e inizierà la fase delle qualità al rialzo. E in queste le parolacce non sono previste, mai!
Poi cresceranno anche le occasioni di parlare in pubblico: mantenere un linguaggio elegante e sobrio in ogni contesto, accrescerà la fiducia e l’interesse di chi ascolta. Personalmente, posso comprendere la parolaccia che sfugge al controllo in un momento di rabbia, ma la parolaccia sistematica che entra stabilmente nel linguaggio ordinario, no. Mi toglie il piacere della conversazione e della considerazione. E a voi?